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ADM: un lavoro per giovani educatori?

Andrea Pisano, Allegoria della navigazione - Campanile di S.Maria del Fiore, Firenze Sec. XIV

 

(…) E adesso so che bisogna alzare le vele

E prendere i venti del destino

Dovunque spingano la barca.

Dare un senso alla vita può condurre a follia,

ma una vita senza senso è la tortura

dell’inquietudine e del vano desiderio –

è una barca che anela al mare eppure teme.

 

E. Lee Master, Antologia di Spoon River – George Gray

 

Il perché di una domanda

La riflessione che segue prende spunto da alcuni punti cruciali che costituiscono le coordinate pedagogiche del servizio di Assistenza Domiciliare Minori (ADM) e che ne fanno uno dei compiti più complessi tra quelli che un educatore professionale si trova a svolgere o a coordinare.

 

La domanda che trova spazio nel titolo vuole portare, dunque, a considerare come tale lavoro – in molti casi svolto dagli educatori quasi in solitudine - preveda una padronanza di gestione di alcune aree fondamentali dell’educativo che ne fanno più un impiego per personale esperto che un ripiego per giovani professionisti, come spesso invece accade.

 

Per questo articolo ci si è avvalsi delle riflessioni maturate in due diversi contesti di formazione che hanno coinvolto due distinti gruppi di operatori, chiamati a confrontarsi sullo specifico del loro lavoro domiciliare: il primo gruppo, impegnato in ADM con mamme e bambini di età compresa tra 0 e 3 anni, il secondo gruppo operante nell’affiancamento di bambini e ragazzi che in più di un caso sono oggetto di intervento del Tribunale dei Minori (TM) o del Tribunale Ordinario (TO).

 

Il confronto tra la visione di educatori impegnati da anni sul campo e studenti che si accostano ad una riflessione già mediata dalla pratica, le domande di approfondimento che questi ultimi hanno posto, hanno permesso infine di focalizzare l’attenzione sugli elementi ritenuti come i più qualificanti ai fini di una pratica di lavoro veramente efficace, tutelante l’operato del professionista e, conseguentemente, del minore a lui affidato.

 

Una, importante, considerazione preliminare: l’ADM tra vincoli di gestione e questioni amministrative.

Quando, sul finire del 2013, siamo riusciti a concretizzare una proposta di formazione nata da un’esigenza del gruppo storico degli educatori dell’équipe ADM dell’Ambito Sociale della Valle Olona (zona sud della Provincia di Varese), i nostri pensieri erano tutti focalizzati sul ragionare e definire cosa fosse lo specifico educativo che dà identità ad un gruppo di operatori impegnati in interventi a domicilio.

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Per questo, seguendo un approccio di lavoro debitore della Clinica della Formazione, il gruppo degli educatori è stato sollecitato a produrre una serie di rappresentazioni grafiche, arrivando a pensarsi e a raffigurarsi come un equipaggio che condivide lo spazio di un’imbarcazione sulla quale trovano posto il minore e la sua famiglia.

 

La barca viaggia all’interno di un fiume e ha come destinazione il mare.

 

Attraverso quali canali si giunge al mare? Le parole chiave identificate allora furono le seguenti:

  • percorso,

  • accompagnamento,

  • libertà,

  • empowerment

  • crisi.

 

Con il procedere del corso di formazione – guidata dal Prof. Pierangelo Barone - ci si è però accorti che il fiume sul quale ci si trova a navigare non è di secondaria importanza.

Tutt’altro.

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Quale senso ha operare in un contesto territoriale che è portatore di una storia ben definita? Quali interrogativi vengono posti al Piano di Zona dalle pratiche dell’ADM? E quali condizioni, quali vincoli vengono posti da chi governa il welfare territoriale allo svolgimento del Servizio in oggetto?

 

Proviamo a chiarire in cosa consistano e cosa comportino i vincoli di gestione.

 

Se analizziamo brevemente il primo termine in gioco – vincolo – emerge come il suo significato letterale sia quello di legame [dal lat. vincÅ­lum, der. di vincire «legare»]. In meccanica, si definisce qualsiasi limitazione alla libertà di movimento di un corpo, per cui ogni vincolo esercita sul corpo vincolato una forza, detta reazione vincolare, che ne impedisce lo spostamento ed è diretta in senso opposto a quello in cui lo spostamento viene impedito. E’ interessante anche considerare il gran numero di configurazioni che si danno nel rapporto tra il corpo e il suo legame. (2)

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Interessante è anche il fatto che il vincolo sottenda un legame di natura affettiva, morale, sociale, che può anche caratterizzarsi come elemento di costrizione, di schiavitù morale. Infine nell’ambito del diritto il vincolo indica l’«assoggettamento» o la «soggezione» di una persona in quanto titolare, dal lato passivo, di una situazione cui fa riscontro un diritto soggettivo altrui.

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Se passiamo a considerare il secondo termine, ovvero gestióne [dal lat. gestio-onis, der. di gerÄ•re «condurre, amministrare», part. pass.gestus], ci imbattiamo in un’attività di amministrazione di un’azienda pubblica o privata, esercitata direttamente dall’interessato (gestione diretta in economia), oppure esercitata, secondo un contratto o fuori contratto, da un soggetto diverso dall’interessato. (3)

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I vincoli gestionali si configurano, quindi, come legami e limitazioni (di vario tipo) che, in qualche modo, si oppongono a derive indesiderate e, tramite un contratto, stabiliscono i criteri di amministrazione di un servizio.

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Ora, posto quanto è stato esposto poco fa, colui che si trova nella condizione di organizzare un Servizio di ADM deve necessariamente confrontarsi con una pluralità di mandati, ognuno con i suoi vincoli e le sue richieste.

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Dove sta il problema? Il problema sta nel fatto che si deve far fronte a richieste di estrema flessibilità dal punto di vista educativo (quante ore, per quanti giorni, in quali giorni, alla presenza di chi, facendo cosa, con educatore o educatrice, con più o meno esperienza, etc.) e con sempre maggiori rigidità dal punto di vista gestionale (sparizione dei contratti a progetto per effetto dell’entrata in vigore del contratto di lavoro a tutele crescenti, impossibilità di trattare con liberi professionisti per le parti di lavoro educativo, comparsa – in alcuni casi – di voucher gestiti dalle famiglie, regolamenti che impongono alle famiglie di compartecipare alla spesa del Servizio etc.).

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Escludendo per il momento il caso dei voucher (che contemplano una logica prestazionale tipica della sanità più che del sociale), passerei ad alcune considerazioni sintetiche rispetto ad alcune conseguenze.

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Le conseguenze, al momento attuale e per l’esperienza che conosciamo dall’interno, sono legate ad una progressiva riorganizzazione dell’équipe di lavoro (sul fronte interno) e stanno portando ad una riorganizzazione della gestione dei casi (sul fronte esterno).

 

Sul versante interno il problema è connesso con la richiesta fatta ai professionisti coinvolti che il lavoro educativo di ADM non sia più visto come marginale o riempitivo. Ciò significa una riorganizzazione oraria personale, una cristallizzazione dell’équipe educativa, un aumento in parallelo di garanzie e costi per il personale, un aumento delle procedure burocratiche (permessi, ferie, dimissioni, formazioni obbligatorie…). Le opportunità che ne derivano sono legate alla possibilità che l’équipe si stabilizzi ulteriormente e che si possa procedere ad una sempre più qualificata formazione degli operatori.

 

Sul versante esterno non è più possibile pensare di allargare l’équipe ad ogni richiesta di intervento avanzata dalle Assistenti Sociali, perché – in prima istanza - si deve garantire il minimo occupazionale degli operatori assunti e ciò provoca due conseguenze: la prima è la creazione di una lista di attesa nel momento in cui non ci siano richieste tali da generare un monte ore che sia sostenibile economicamente (alle attuali condizioni del bando) al fine di procedere a nuova assunzione; la seconda è che diventa sempre più difficile riuscire a creare un’interfaccia il più possibile perfetta tra minore segnalato ed educatore disponibile.

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Come si può agevolmente capire questi vincoli hanno una notevole ricaduta sul lavoro strettamente educativo.

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Altri vincoli importanti su cui si dovrebbe discutere, amplificati tra l’altro dai limiti imposti dal regime contrattuale, sono quelli legati alle cosiddette ore indirette. Un educatore che lavora tra le 16 e le 20 ore settimanali –quando ci si riesce – si trova ad avere a che fare con 4/5 casi diversi, mentre in passato si poteva lavorare anche con un paio di progetti per 8 ore a settimana. Naturalmente il carico in termini di confronto tra operatori, incontri di rete e rendicontazioni del lavoro, come minimo, subisce un raddoppio in termini di tempi di lavoro. Come fare per continuare a garantire una certa qualità del lavoro? Bastano ad un educatore due ore di équipe (o di supervisione) al mese per gestire 4/5 casi? Naturalmente non stiamo parlando della formazione continua degli operatori, che dovrebbe essere una preoccupazione importante proprio per la complessificazione dei casi negli ultimi anni, che richiede una professionalità e una capacità di “reggere” a livello emotivo ancora maggiore che in passato.

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Purtroppo di risposte semplici non ne esistono, anzi. Certo si può e si deve fare uno sforzo comune tra Enti locali e incaricati del Servizio per trovare una possibile soluzione tra costi e benefici che non metta a rischio ogni volta l’impianto metodologico che assicura un approccio pedagogico qualitativamente importante.

 

Far chiarezza rispetto al mandato del Servizio.

“Desidero porre una domanda che ritengo davvero cruciale: è possibile oggi riappropriarsi di una funzione educativa specifica negli interventi rivolti ad adolescenti? Io procederei interrogandomi sulla crisi che attraversa l’intenzionalità educativa; perché più che la crisi della scuola, più che la crisi della famiglia, oggi sembra ci sia, in qualunque tipo di situazione istituzionale, la difficoltà di organizzare pratiche che abbiano una loro specifica intenzione educativa”. (4)

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Con queste parole si apriva una relazione tenuta da Riccardo Massa nell’ambito di un convegno avente a tema i Centri di Aggregazione Giovanile. Era il mese di novembre del 1999.

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Massa così continuava: “La mia impressione è che sia entrato in crisi, non tanto la nozione di progetto educativo o la scuola, quanto piuttosto quello che chiamerei un ambiente educativo (…) Oggi, sembrerebbe che i ragazzi siano esposti totalmente al gioco relazionale interno ai contesti familiari, cioè che l’istanza educativa sia tutta interna alla famiglia intesa innanzitutto come contesto di apprendimento. Non posso più dire che l’esperienza familiare condiziona i giovani, devo dire che l’esperienza familiare, che non trasmette più contenuti e valori e forme di vita, determina gli stili relazionali dei bambini e dei ragazzi, determina la loro sofferenza e la loro adeguatezza o inadeguatezza”.

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Se questo, dunque, è il contesto che si è venuto a delineare in questi anni di passaggio di secolo, come è possibile definire il mandato dell’Assistenza Domiciliare Minori proprio nel suo senso legato allo stare dentro il contesto di una specifica esperienza familiare?

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Il termine mandato contiene in sé un rimando forte all’atto con il quale un committente investe pubblicamente, cioè delega in modo chiaro, un soggetto di un compito da svolgere in sua vece. Insieme con l’ordine viene consegnato al mandatario il potere necessario per condurre a termine il suo compito.

 

Da qui alcune osservazioni. La prima è che, tra gli esempi, nessun dizionario riporta e riconosce un mandato di tipo educativo, mentre ne esistono di tipo giudiziario, politico o contabile. La seconda osservazione è che, se questa è la definizione di mandato, ci si viene a trovare di fronte più a domande che a risposte.

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Rispetto all’ADM chi riveste il ruolo di committente a cui l’educatore deve rispondere? Ne esiste uno solo o questi sono molteplici e possono anche coesistere?

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Secondo problema: qual è la natura del mandato dell’ADM? Amministrativa, come quella insita nei documenti dei Piani di Zona e dei Bandi di gara che individuano le caratteristiche degli Enti Gestori, oppure educativa, in quanto legata ad una precisa pratica professionale o, ancora, connessa al pronunciamento di un tribunale o al potere della famiglia di disporre di risorse economiche per attivare l’intervento (voucher)?

 

Terza questione: qual è il soggetto che detiene il vero potere connesso al mandato e può trasmetterlo al mandatario? E di quale potere si parla?

 

Per quanto concerne il caso specifico dell’ADM, si viene a delineare una catena che vede, inizialmente, una segnalazione di un bisogno (relativo ad un minorenne che si trova in famiglia) la quale, raccolta dai Servizi competenti (Servizi Comunali), si tramuta in un mandato di intervento che si configura in un esordio osservativo e confluisce in un progetto articolato di intervento.

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Il ruolo del committente sembrerebbe spettare allora all’Ente Locale – come conferma la legislazione in materia – che investe un’organizzazione, dotata di personale competente, del potere esecutivo di intervenire nella situazione concreta. Il mandato non sembrerebbe né discutibile, né negoziabile. Negoziabile, rispetto alla situazione, risulterà il progetto di intervento nel suo farsi progressivo.

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Le questioni sopra esposte sono così risolte? Purtroppo il caso dell’ADM porta in sé molte particolarità e complicazioni che fanno sì che i problemi non si possano risolvere con linearità.

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Il mandato dell’ADM, innanzitutto, è tutto fuorché chiaro perché, di fatto, non è vero che sia non-negoziabile. Anche il potere di governo della situazione non appartiene tutto al committente, ma sta in buona parte nelle mani della famiglia che decide di aprire le porte della sua casa. (5)

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L’educatore e l’équipe si trovano, pertanto, nel mezzo della catena sopra descritta e dispongono, a loro volta, di un potere piuttosto limitato rispetto sia al committente che al ricevente l’intervento, potere circoscritto alla stesura del progetto dopo l’osservazione.

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Il quadro che si delinea è, dunque, quello di un intervento molto fragile nei suoi equilibri e frammentato rispetto a ciò che lo muove: esigenze di osservazione, di sostegno ai genitori e ai minori, di mediazione, di promozione dell’autonomia e delle relazioni, di controllo…

 

Il Piano di Zona 2015-2017 dell’Ambito Sociale della Valle Olona (pag.27) – il contesto di cui abbiamo esperienza diretta - spiega chiaramente che, negli ultimi anni, l’ADM è venuta sempre più configurandosi come servizio ausiliario della Tutela, per effetto dei pronunciamenti sia del Tribunale per i Minorenni che del Tribunale Ordinario (6). Ciò sta a significare che quella modalità operativa che appariva nel Piano Socio Assistenziale della Regione Lombardia del 1988 (7) ed era descritta in tre righe come opera di un educatore con valore “integrativo e/o sostitutivo del nucleo familiare” si trova, quasi trent’anni dopo, a vedere del tutto mutata la sua missione.

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Quella che nel tempo è venuta a concretizzarsi sembra essere una discrasia tra lo strumento e il suo mandato originario. Se con uno strumento educativo che non è stato pensato per operare in regime di tutela si opera come se lo fosse, si rischia di non essere sufficientemente chiari con le famiglie che dovrebbero accogliere gli educatori, i quali, conseguentemente, vengono messi alla porta.

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A questo punto la via di uscita è duplice: o si restituisce l’ADM al suo originario compito, riavvicinandola il più possibile al suo mandato e risolvendo la discrasia sopra descritta, oppure si configura la necessità di inventarsi qualcosa che non è l’ADM. Inoltre, se la maggior parte dell’educativo a domicilio si configura come tutela, ciò sta a significare che si può fare educazione a domicilio in termini professionali solo per decreto? Se così invece non è, diventa possibile raccogliere i suggerimenti di Massa che delinea tre piste per uscire dalle secche di un educativo sempre più in crisi, ovvero pensare interventi che sostanzino i propri progetti per la capacità di fare esprimere i minori nello svolgersi della loro esperienza, nel far loro acquisire competenze concrete e nel dotarli delle capacità di cristallizzare il loro procedere nel flusso della vita.

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Eccoci allora ad enucleare alcuni temi pedagogici fondanti il complesso lavoro dell’educatore a domicilio che si presenta sempre più come compito che richiede una grande capacità di gestirsi all’interno di un contesto particolare come quello della casa dei minori presi in carico.

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1. Delineare un progetto realmente educativo per l’ADM

“La zavorra ideologica che appesantisce ogni progetto pedagogico spinge sempre a privilegiare le categorie giusto/sbagliato...". (8)

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Per poter realizzare quanto delineato sopra dalle parole di Riccardo Massa è indispensabile che si elabori un progetto educativo che si cucia alla perfezione addosso alle forme particolari dell’intervento a domicilio.

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Il progetto educativo è lo strumento di lavoro che, partendo dai bisogni espliciti ed impliciti di una famiglia, descrive un percorso atto a realizzare delle finalità educative mediante il raggiungimento di specifici obiettivi. Tale progetto ha la funzione di bussola, perché determina la direzione verso la quale dirigere il lavoro educativo.

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La progettazione educativa mobilita forze immaginative e ideative e, nel caso dell’ADM, richiede al tempo stesso riflessione, capacità di adattamento e anche sistematicità, dal momento che si presuppone che la famiglia stessa sia un sistema. Ciò che caratterizza la dimensione progettuale è, dunque, la capacità di immergersi nella realtà per modificarla: questo avviene tracciando dapprima una bozza di disegno che precede l’ingresso in casa per poi definire una nuova realtà, lasciando ampi margini affinché il nostro disegno di partenza possa svilupparsi, espandersi ed approfondirsi.

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Caratteristica di ogni progetto di ADM è, infatti, la circolarità: in ogni momento è possibile intervenire per adeguare l'itinerario alle circostanze e ai bisogni dei minori. Il punto di partenza per definire il progetto è un'analisi attenta della situazione iniziale che implica il prendere atto della situazione in cui l’educatore si colloca e chi è il soggetto dell’azione educativa.

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Nel caso dell’ADM si deve tener conto che un progetto pensato o costruito per un minore potrebbe avere una ricaduta più ampia su tutto il sistema familiare.

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Attraverso l’osservazione iniziale si cercherà di individuare quali possano essere le variabili su cui si può intervenire e quali siano indipendenti dall’educatore, quali siano i bisogni che emergono per capire quale proposta sia possibile fare e infine quali siano le risorse da far emergere.

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Dopo aver fatto l'analisi della situazione si possono definire gli obiettivi dell'intervento educativo a cui si sta pensando. Gli obiettivi devono essere in rapporto alla situazione osservata, tenendo in considerazioni tutte le possibili variabili. L'intervento, perché possa essere efficace, dovrà essere personalizzato, adattato e adatto al minore, al suo modo di essere e al contesto familiare.

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Il progetto educativo in ADM è per sua natura dinamico: non è pensabile infatti che il nostro disegno iniziale rimanga inalterato. La famiglia, infatti, è un sistema in continuo movimento ed ogni azione degli attori produce delle reazioni.

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“Fare educazione significa (…) fare di tutto perché all'educando succeda qualcosa." (9)

 

2. La dimensione trasformativa dell’ADM

 

“E’ nelle narrazioni spesso silenziose e ancor più spesso inascoltate che vanno individuati gli indizi per un progetto educativo che partendo dalle storie di vita riesca ad andare oltre esse”. (10)

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Altro punto nodale che incontra l’educatore nel lavoro di ADM è porre la questione se, alla luce degli sviluppi che la situazione porta, sia da perseguire una logica di tipo conservativo (“limitiamo i danni e manteniamo quanto di buono abbiamo trovato a fronte dell’impossibilità di lavorare sul contesto complessivo”) oppure sia possibile tendere ad una logica di tipo trasformativo (“colgo nella situazione segnali che mi lasciano intendere che esistono vie praticabili per giungere ad un significativo passaggio evolutivo in senso pedagogico della situazione complessiva).

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Nella maggior parte dei casi lo stile di vita dei minori in carico al servizio di ADM, non deriva tanto da una risposta individuale a condizioni di vita problematiche, quanto da un lento e progressivo adeguamento a un modello culturale costruito all’interno di un gruppo individuabile, quale la famiglia e i coetanei. Il gruppo stabilisce norme, valori e regole di interpretazione del mondo entro cui il minore vive.  Spesso i minori che si incontrano vivono passivamente la propria situazione, si lasciano trasportare dalla forza degli eventi che accadono loro come avvenimenti semplicemente esterni, dove ciascuno deve soltanto lasciarsi dislocare, perché questa è la regola implicita. E’ infatti vero che la famiglia e il sistema di azioni che essa pratica e legittima offrirebbero al bambino/ragazzo una possibilità di autorealizzazione in forme che riescono comunque ad essere percepite come appaganti al di là del loro essere o meno buone prassi educative.

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Capire l’agire dei minori significa cogliere in esso le tracce di quella particolare e spesso idiosincratica visione del mondo che li sostiene e di quel profondo sistema di significati in base ai quali essi interpretano la realtà e progettano di conseguenza la loro esistenza. Inoltre, “l’incidenza di alcune forme di deprivazione materiale, relazionale o formativa è molto rilevante, perché tali realtà costringono il processo di costruzione di una visione del mondo entro i confini delle loro configurazioni”. (11)

 

Nel contesto quotidiano il minore, utente dell’ADM, anticipa l’attivazione di processi di cambiamento attivo e di strutturazione dell’identità, creando intorno a sé un setting che non “rompa gli schemi” di visione di sé nel mondo e che non lo metta in crisi (12) , non portandolo così a mettere in discussione il proprio punto di vista. La sua stessa capacità di intenzionare è vincolata dalla specificità dell’alterità con cui il soggetto è in relazione (famiglia e gruppo dei pari); è qui che si inserisce la relazione educativa, che come elemento “di disturbo” dalla norma punta a rompere gli schemi preesistenti, al fine di provocare un processo di cambiamento che miri all’evoluzione del soggetto.

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Il lavoro dell’educatore consiste, in primo luogo, nel saper ascoltare e nel raccogliere informazioni che inizino a far intravedere l’individuo di fronte a cui si trova e “l’intervento pedagogico può intervenire per sospendere questa immediata assunzione, per interrompere il dispositivo del dato-per-scontato”. (13) In questa terra di nessuno, campo neutro interposto tra le frontiere di due mondi l’uno all’altro sconosciuti, educatore e minore possono osservarsi, scrutarsi e stabilire un accordo da cui abbia inizio quel minimo di conoscenza reciproca che autorizzi il senso dell’intervento educativo. E’ dunque probabile che le modalità con cui un minore e la sua famiglia tenderanno a presentarsi all’educatore sarà centrata più sulla difesa che sulla fiducia, più sull’evitamento che sull’apertura; sappiamo bene cosa vuol dire trovarsi di fronte a un nucleo familiare che per paura rifiuta l’incontro o improvvisa un muro di indifferenza, chiusura e lontananza.

 

La determinatezza del mandato educativo e degli indicatori di risultato del lavoro dunque, sono i presupposti fondamentali per l’avvio di un intervento di ADM quale processo di trasformazione del minore e della sua famiglia.  L’interconnessione fra mandato, indicatori di risultato, momenti di verifica, obiettivi, e di ridefinizione di questi ultimi deve avere un funzionamento sincronico che permetta così all’intervento educativo di essere un processo complesso ed efficace che sia per l’equipe di lavoro una sperimentazione consapevole.

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“La danza” che l’educatore agisce nel continuo avvicinarsi e allontanarsi nel setting della relazione educativa, necessita di un supporto emotivo adeguato che permetta al servizio di ADM di garantire a fianco del minore la presenza di un adulto equilibrato e responsabile. E’ dunque attraverso il lavoro di supervisione che viene predisposto uno spazio di raccolta di emozioni e pensieri che possono essere espressi nella maniera più associativa e spontanea possibile. Anche abbandonando tradizionali esposizioni dei casi, ci si può aprire ad importanti spazi di comprensione. Ciò permette il superamento di sentimenti di inadeguatezza ed incapacità attraverso la composizione del quadro narrativo che convoglia l'esperienza emotiva degli operatori, depositando nello spazio gruppale, un importante insieme di elementi.

 

La dimensione trasformativa dell’ADM è un progetto ambizioso, “un incidere, un graffiare intenzionalmente la vita individuale per lasciarvi un’impronta visibile” (14). Educare trasformando significa accompagnare, camminare a fianco del soggetto e sapere che esso vivrà qualcosa che non possiamo immaginare in anticipo.

 

3. Il lavoro di rendicontazione dell’intervento educativo (15)

“I servizi educativi sembrano avere un rapporto particolare […] con la scrittura. I documenti da cui sono abitati sono soprattutto cartelle cliniche o sociali […] progetti di servizio, articolati sulla base di impostazioni derivate da altre agenzie o soggetti […]. Documentazioni scritte che risentono (o adottano) di forme e linguaggi amministrativi, sanitari, anche giudiziari, a volte. Certo, poi si ritrovano, in alcuni servizi, altre scritture: il diario di bordo, le relazioni sull'andamento dei progetti/servizi […]. L'impressione, anche in questo caso, è che spesso queste scritture non siano pedagogicamente pensate, ovvero che non si pongano il problema di scrivere l'esperienza educativa in modo tale da vederne e comprendere caratteristiche e specificità”. (16)

 

Anche se facente riferimento ad un ambito d'intervento diverso dall'ADM, l'opinione riportata poco sopra si può allargare alla generalità degli ambiti di intervento educativi.

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E’, questo, uno dei punti centrali, a nostro parere, per lo sviluppo e il riconoscimento del lavoro educativo in quanto tale. Un lavoro di cui non si può parlare e di cui non si può rendere ragione finisce per non esistere. O, nel migliore dei casi, finisce per essere confuso con altri tipi di lavoro che non sono propriamente educativi, pur se abitano zone liminali.

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E’ per questa ragione che, in un momento in cui l'importanza e le implicazioni connesse alla relazione scritta del lavoro educativo vanno aumentando –  vista la recente svolta normativa che prevede un passaggio di competenze dal Tribunale per i Minorenni al Tribunale Ordinario (17); con la conseguenza che gli educatori potranno essere chiamati ad assumersi responsabilità precise nei confronti della produzione di documentazione scritta relativa ai casi seguiti, come professionista e perciò testimone a tutti gli effetti nel procedimento – alcune questioni riguardanti l'approccio e le modalità pratiche delle rendicontazione del lavoro educativo, meritano di essere affrontate. A monte di questa operazione ci deve essere la consapevolezza che l'operatore si trova di fronte a due problematiche linguistiche con cui deve fare i conti: da un lato, a differenza di altre categorie professionali, l'educatore non può utilizzare un linguaggio oggettivante; dall'altro, la pedagogia non ha ancora un linguaggio proprio.

 

In questa nuova situazione, a fronte delle responsabilità di cui viene investito l'operatore, è insita anche una nuova possibilità: un più forte e concreto riconoscimento professionale della figura dell'educatore sociale.

Anche se oggi si scrive molto nei servizi, questa operazione «ha mantenuto per lo più la caratteristica dello scrivere nel lavoro, anziché dello scrivere del lavoro» (18). Lo specifico dell'intervento dell'educatore resta fuori.

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Questo succede anche perché, spesso, la forma delle relazioni scritte è basata su un'impostazione di tipo socio-assistenziale, o psico-sociale, che privilegia il dato osservativo rispetto al focus sul percorso pedagogico. L'obiettivo che si può delineare all'orizzonte di una ricerca di questo tipo è la costruzione di una prassi, di una consuetudine, di scrittura che possa includere – o perlomeno adoperarsi in un tentativo il più possibile efficace -  tutti gli aspetti che compaiono, entrano in gioco e si relazionano fra loro, in un intervento – nel caso specifico l'ADM – educativo.

 

Quale dunque la forma più funzionale a quest'obiettivo? Forse una struttura di tipo narrativo che, salvaguardando la ricerca dell'oggettività – ancorché un'oggettività presunta – e della sua salvaguardia, possa raccontare i vissuti, gli spazi, i tempi e, soprattutto, le azioni che hanno caratterizzato l'intervento educativo. Fare in modo che la relazione diventi il “terreno” - lo strumento – di condivisione di un progetto educativo elaborato per una persona e delle azioni concrete messe in campo. In questo modo la relazione cerca di essere l'istantanea di un servizio, un'immagine – che pur con tutti i suoi limiti – prova a restituirne, in sintesi, la forma e la sostanza.

 

Legata a questo aspetto c'è anche la richiesta amministrativa della rendicontazione del lavoro educativo: come si valuta quantitativamente e qualitativamente il lavoro educativo? La questione è stata molto dibattuta, senza peraltro essere risolta. L'enucleare degli indicatori di valutazione del servizio - per quanto sia un'operazione complicata – è una problematica che si deve affrontare e con cui ci si deve confrontare. In questo caso potrebbe essere proprio la richiesta di relazioni scritte che “raccontino” dettagliatamente – nella sintesi -  e oggettivamente il processo educativo, uno degli indicatori di valutazione; magari abbinata al coinvolgimento di altri soggetti – famiglia, scuola, neuropsichiatria infantile, gruppi sportivi, ecc. - per rilevare i riflessi del lavoro educativo.

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Il lavoro educativo non può essere sacrificato alla procedura, ma non può, e non deve esimersi, dal dovere/bisogno di raccontarsi oggettivamente, trovare un proprio “linguaggio” che possa raccontare le azioni attraverso le parole. Scrivere per «trasformare l'informazione in conoscenza e gli eventi quotidiani in esperienza, per riflettere su processi e relazioni di aiuto che mi coinvolgono […] per lasciare traccia e memoria della mia esistenza professionale» (19) è certamente diverso dallo scrivere “perché devo”, o “perché mi viene richiesto”. La necessità di scrivere per documentare e “giustificare” il proprio operato, però, va vista come una ricchezza e un’occasione di miglioramento della propria professionalità: rendere conto a qualcuno di “esterno” al proprio percorso educativo impone di assumere un’altra posizione nel raccontarlo, e spinge a rielaborare il proprio vissuto professionale e metterlo a confronto con modelli che potenzialmente non appartengono a una formazione pedagogica, ma che possono comunque rappresentare punti di vista validi e mettere in luce aspetti della relazione educativa che, vista e vissuta “dal di dentro” resterebbero altrimenti nascosti. Il processo di rendicontazione assume quindi un’importanza notevole non solo per chi andrà a leggerne il prodotto finale, ma anche per gli educatori che si trovano ad affrontarlo.

La possibilità di rivedere il proprio operato mettendo in luce le azioni, permette di ridare un nuovo senso a quest’ultime, anche le più semplici e abituali.

 

4. Il lavoro dell’educatore su di sé (20)

L’ultimo punto che affrontiamo in questa rapida esplorazione dei nodi vitali legati al lavoro di ADM riguarda l’aspetto della supervisione, psicologica e/o educativa, che deve offrire il supporto al singolo educatore e al gruppo per recuperare forze e significati dell’intervento svolto in solitaria in un contesto in cui sono altri a porre regole e condizioni.

 

La prima domanda che ci si pone è, dunque, la seguente: lavorare come educatore in ADM comporta un “intervento su un sistema”, con riferimento al sistema familiare, oppure determina un “intervento nel sistema”?

 

Ponendo come effettivo il secondo caso, diventa tema centrale per l’operatore quello del coinvolgimento personale nel lavoro di ADM, in modo specifico a partire dalle implicazioni affettive ed emotive di questo coinvolgimento, fino ad arrivare alle strategie utilizzate per gestire e trattare questo diventare parte del sistema.

 

Ma cosa si intende per coinvolgimento? Nello specifico si può parlare di tutto ciò che concerne sensazioni, pensieri, emozioni, pregiudizi, giudizi dell’educatore coinvolto nella 

relazione di cura.

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L’educatore, infatti, entra in un sistema precostituito – il sistema familiare, appunto -, vi entra per più ore a settimana e spesso proprio nel luogo simbolo dell’intimità familiare: la casa. La relazione educativa, pertanto, comprende sempre una dimensione affettiva, la quale coinvolge sia l’aspetto razionale che quello emozionale/sentimentale.

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A tal riguardo la dimensione affettiva non deve essere considerata un ostacolo da eliminare, un elemento che rischia di compromettere la riflessione e l’azione educativa. Essa può invece diventare una risorsa per il lavoro educativo, un punto di forza,  se 

debitamente considerata e rielaborata. 

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La questione, a questo punto, si sposta sul campo delle modalità di gestione di tutte le implicazioni che comporta fare un lavoro di assistenza domiciliare a minori. Possiamo cominciare ad identificare tre tipologie di risposta: alcuni educatori usano scrivere, una volta tornati a casa, tutto quello che è successo durante l’intervento educativo, utilizzando la scrittura come fonte di sfogo e come specchio per poter rivedere il proprio modo di agire e le proprie emozioni e rielaborarle; altri, molto più semplicemente, scelgono di affrontare e scaricare il vissuto emotivo all’interno della propria casa. Resterebbe da chiedersi quale sarebbe il senso di un’operazione così privata, dal momento che avendo a che fare quotidianamente con emozioni, sentimenti, relazioni, rischieremmo di non tematizzare una parte così ingombrante e nello stesso tempo così arricchente, vero e proprio elemento costitutivo del lavoro educativo. 

 

La terza via per contenere gli aspetti affettivi ed emotivi del lavoro è nella costruzione e nel governo del setting, parte a sua vola del lavoro preliminare di progettazione dell’intervento. Possiamo definire il setting come “un insieme di elementi contrattualmente prestabiliti: il luogo, il tempo degli incontri (durata e frequenza), […], la collocazione dei protagonisti […].” (21)

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Il setting rappresenta quell’elemento fisso, predeterminato e costante che va condiviso con i minori e con i loro genitori, importantissimo perchè struttura gli incontri di ADM. 

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Sergio Erba, riferendosi al saggio del 1977 Il vero e il falso afferma che l’autore di esso, Enzo Codignola, “ha dimostrato che il setting non è un semplice contenitore dell’attività interpretativa, ma intrattiene con essa un rapporto organico, strutturale, funzionale.”. Si ritiene che, ai fini del nostro discorso, i termini “attività interpretativa” siano sostituibili con “attività educativa”. Oltre a questo significato strutturale, il fatto che i minori e tutti gli adulti coinvolti nell’intervento educativo conoscano e condividano il setting è fondamentale perché permette ­ autorizza ­ un lavoro di riflessione su tutte le modifiche e le infrazioni, come dimenticanze e ritardi, che vengono agiti dagli attori in gioco.

 

Se, ad esempio, ogni volta che un educatore ha un incontro con un ragazzino, questo tarda a presentarsi o si nega, è possibile parlare e riflettere con lui e con la famiglia, del significato del suo ritardo proprio in forza della struttura condivisa del setting che è stata stabilita precedentemente. Gli adolescenti, in particolar modo, spesso sostituiscono alle parole gli atti e il setting fornisce la possibilità di vederli giocati sul campo, e trattandosi di un campo i cui confini sono stati stabiliti insieme da educatore e ragazzo è evidente che questi atti assumano un significato particolare, perché parlano del ragazzo in relazione all’intervento educativo, in relazione all’educatore noi.

 

Il setting permette, inoltre, di contenere e maneggiare – senza manipolarle in senso negativo -  le emozioni, gli affetti e i pensieri dello stesso educatore. 

 

Così come è fondamentale creare un “luogo” entro cui contenere le emozioni nel momento stesso del farsi del lavoro educativo diventa vitale per l’educatore impegnato nell’ADM avere a disposizione un luogo e un tempo preposti, che diventino parte integrante del suo stesso lavoro, dove poter affrontare in gruppo con i colleghi tutti gli aspetti sopracitati, trovando specificamente in una dimensione gruppale debitamente formata e protetta la possibilità di condivisione, di confronto, di consiglio.

 

La debolezza di questo strumento sta nel fatto che le esigenze pratiche ed organizzative del Servizio finiscono per assorbire quasi tutto il tempo a disposizione e così queste questioni purtroppo riescono solo ad essere sfiorate. E’ dunque indispensabile avere un luogo fisico dove poter recuperare e rielaborare i vissuti e le emozioni e questo luogo dovrebbe essere quello della supervisione. Nello specifico si intende una supervisione di carattere psicologico che escluda le tematiche di tipo pratico e di gestione del caso. 

 

Se non vengono riconosciute, analizzate e gestite le emozioni implicate nelle dinamiche relazionali del lavoro educativo si rischia non solo di andare incontro ad una sofferenza psicologica dell’operatore (con pericolo di burn out), ma anche di procurare la perdita di efficacia dell’intervento educativo.

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Il lavoro su di sé, sulle proprie emozioni e sui propri affetti ha pertanto una funzione anche pedagogica perché facilita e arricchisce la relazione educativa. Di questo tipo di lavoro ne beneficiano tutti gli attori coinvolti nel caso e da ciò dipende anche il buon 

esito dell’intervento. 

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L’educatore che lavora in profondità sui propri vissuti personali e che si autorizza a esprimere e parlare delle proprie emozioni anche con gli stessi utenti svolge una funzione pedagogica.

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Parlare di emozioni e affetti e gestirli “in diretta” è un atto educativo in quanto testimonianza della possibilità di un incontro affettivo autentico con l’altro. 

 

Posticum

Angelo Franza spiegava che è necessaria un’uscita per ogni viaggio che avesse avuto l’opportunità di attraversare più stanze. Noi ci siamo addentrati nella questione del lavoro dell’ADM come situazione portatrice di un elevato grado di complessità, con l’aggiunta del fatto che questa complessità si deve essere in grado di gestirla in quasi totale autonomia. Pensiamo a quegli ambiti nei quali l’ADM è diventata una prestazione da misurare in minuti e pagare in ticket, previa segnalazione telefonica alla centrale di costo. In questi casi non è pensabile e prevedibile alcuna logica di équipe e di condivisione del lavoro educativo.

 

Alla luce di queste considerazioni la domanda che ci eravamo posti all’ingresso della riflessione non può avere che una risposta: L’ADM non è un lavoro per giovani educatori.

In realtà quello verso cui si deve tendere, ognuno con i propri mezzi, è la riaffermazione di una modalità di lavoro che non può che essere quella del “Servizio”, ovvero una modalità in cui ci sia uno spazio dove poter materializzare e condividere un pensiero pedagogicamente fondato e condiviso rispetto alle diverse situazioni oggetto di lavoro educativo.

 

Sarebbe un controsenso, o un non-senso, lavorare per riavviare circuiti relazionali di minori riconosciuti come problematici escludendo per gli operatori qualsiasi strumento di relazione professionale. E’, come precisava Andrea Marchesi in un suo contributo in sede di seminario avente a tema l’ADM (22), una questione non solo educativa, ma politica. Perché è in gioco una visione della città a cui si consegnano i ragazzi presi in carico.

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Quindi, in una città in cui le relazioni non si sacrificano per le prestazioni, anche un giovane può, a buon diritto, provare a crescere portando il suo contributo.

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2. V. olonomo, vincolo che impone limitazioni alle posizioni o alle configurazioni possibili di un sistema e quindi al numero di coordinate indipendenti (gradi di libertà) necessarie per descriverne il moto; v. anolonomo, che non comporta limitazioni alle configurazioni possibili di un sistema, ma solo restrizioni di carattere cinematico al modo in cui il sistema può raggiungere una determinata configurazione; v. unilaterale, bilaterale, a seconda che la limitazione sia tale da consentire o no il distacco del corpo dal vincolo stesso; v. interno, esterno, a seconda che la limitazione riguardi parti diverse di uno stesso corpo o sia imposta al corpo dall’esterno; v. fisso, mobile, a seconda che la limitazione sia o no indipendente dal tempo; v. geometrici, quelli che impongono limitazioni soltanto alle posizioni dei punti di un sistema e non alle loro velocità; v. ideali, vincoli la cui presenza non influisce sulla variazione dell’energia cinetica del sistema in moto (devono essere, per es., privi di attrito). Per estens., v. termodinamico, nome generico dei dispositivi che impediscono la variabilità, nel corso di determinate trasformazioni, di alcune coordinate termodinamiche, come la pressione, la temperatura, il volume. Si veda www.treccani.it/vocabolario/vincolo

3. www.treccani.it/vocabolario/gestione

4. Massa R., Tre piste per lavorare entro la crisi educativa, Animazione Sociale, n.2, 2000, Ed. Gruppo Abele, Torino, pag. 60-66

5. Nei casi e nei Distretti/Piani di Zona/Consorzi ove vige una logica prestazionale legata alla voucherizzazione o alla compartecipazione ai costi dell’intervento da parte della famiglia tale potere è ancora più palpabile ed effettivo.

6. I casi afferenti alla Tutela hanno abbondantemente superato la metà del totale dei casi seguiti con l’ADM.

7. Altri riferimenti legislativi sono i seguenti: D.P.R. 24, luglio 1977 in cui si incaricano i Comuni di amministrare e organizzare servizi di beneficenza e assistenza; L.R. cod.reg. 7 gennaio 1986, art.2, in cui si definiscono gli obiettivi del sistema socio-assistenziale, e art. 73 in cui si specifica che l’assistenza domiciliare garantisce al minore la permanenza nel proprio nucleo familiare promuovendo l’acquisizione di competenze educative nei genitori; L. 184 del 4 maggio 1983. Cfr. G. Cavicchioli, B. Bandioli, Il Servizio di Assistenza Domiciliare Educativa, Quaderni del Centro Servizi Scuola&Famiglia, n.1, Cooperativa Alce Nero, Mantova, 2003.

8. Salomone I., Il setting pedagogico, Carocci, Roma, 1997

9. Ibidem

10. Ivo Lizzola, Educare dai margini, CELSB, Bergamo, 2002

11. Bertolini, Baronia, Ragazzi difficili, La nuova Italia, Firenze, 2000

12. Si pensi a tutta la riflessione operata in tal senso da Paul Ricoeur

13. Borgna E., Noi siamo un colloquio, Feltrinelli, Milano, 1999

14. Demetrio D., Educatori di professione, La Nuova Italia, Firenze, 1990

15. Sul tema si possono consultare alcuni contributi interessanti che qui ci limitiamo a segnalare: Biffi E., La scrittura di un caso come strategia di ricerca per le professioni educative, Encyclopaideia, XVIII (39), pagg. 117-134, 2014; Sposetti P., Quante e quali scritture professionali in educazione, Italiano LinguaDue, n. 1, 2011;  G. Cavicchioli, B. Bandioli, Il Servizio di Assistenza Domiciliare Educativa, Quaderni del Centro Servizi Scuola&Famiglia, n.1, Cooperativa Alce Nero, Mantova, 2003, pag. 29ss;

Demetrio D., Narrare per dire la verità: l’autobiografia come risorsa pedagogica, in http:/www.analisiqualitativa.com/magma/0303/articolo_05.htm;

16. Brambilla L., Palmieri C. (a cura di), Educare leggermente. Esperienze di residenzialità territoriale in salute mentale, Franco Angeli, Milano 2010, pag. 94

17. Articolo 3 della legge 219/2012

18. Longoni B. (a cura di), I servizi domiciliari. Raccontare e raccontarsi, Maggioli Editore, Santarcangelo di Romagna 2013, pag. 18

19. Ibidem

20. Anche in questo caso segnaliamo alcuni articoli che potrebbero risultare di utile consultazione: un contributo situato all’interno di un dossier dedicato all’ADM è quello curato da Brandani W., Masciadri A., Nel labirinto delle relazioni educative, Pedagogika.it, n.3, 2005, pagg. 12-14; Tramma S., L'educatore imperfetto, Carocci, Roma, 2008;

Braga C., L’importanza della supervisione. Il sostegno del corpo curante, in www.lavorosociale.com/archivio/n/articolo/limportanza-della-supervisione; una sintesi di alcuni concetti legati alla supervisione educativa viene data in http://www.scuolacounselingtorino.it/la-supervisione-educativa/

21. Erba S., Domanda e risposta, Franco Angeli, Milano 

22. Un manifesto per l’ADM. Una bussola, un viaggio… quale approdo? Seminario di studi, Fagnano Olona 10 dicembre 2015.

a cura di

Massimo Aspesani


La redazione di questo contributo tiene conto del lavoro prezioso che è stato condiviso tra colleghi dell’équipe Tutela dell’Ambito Sociale della Valle Olona.

Il linguaggio e la scrittura possono risultare non perfettamente omogenei nello sviluppo dei diversi temi, ciò non toglie tuttavia che l’accordo sui contenuti sia stato pieno. In particolare il sottoscritto ha curato la cucitura dei diversi contributi, la parte introduttiva e finale e, con Paolo Rigorini, le tematiche relative al mandato dell’ADM.

Ricordo il lavoro di Jessica Boiocchi e Anna Manfreda sul progetto educativo, quello di Luca Spinoglio e Marzia Gotti sulla dimensione trasformativa dell’intervento, quello di Fabio Gusta Brasso e Mattia Piola sulla rendicontazione del lavoro, quello di Marta Greco e Federica Chighine sul lavoro personale dell’educatore.

 

Le tirocinanti

Ilaria Testa,

Cinzia Girola,

Paola Rossi,

Silvia Pedotti

Tiziana Laviero

hanno contribuito nel portare l’attenzione sul focus della supervisione e della scrittura delle relazioni educative, evidenziandone il bisogno a prescindere dal tipo di compito e raccogliendo interessanti note bibliografiche.

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