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Il ruolo dei Centri diurni per minori ad alta intensità educativa

Che cosa sono i centri diurni per minori? Chi accolgono e perché? qual è l’importanza sociale che rivestono sul territorio?

Dopo circa trent’anni  dalla nascita del nostro centro diurno Tempo per l’Infanzia di Milano, abbiamo sentito l’esigenza di fare il punto su questo tipo di servizio, sul suo mandato e sulle trasformazioni subite nel tempo e di quelle in atto, derivate sia da un adeguamento al contesto e ai bisogni sociali che dalle politiche locali. Il coinvolgimento di alcuni studenti universitari della Bicocca è stata una opportunità preziosa per narrare gli approcci pedagogici adottati esponendo anche da un punto di vista teorico, il lavoro e il funzionamento di questo servizio.

 

ORIGINI E RIFERIMENTI LEGISLATIVI

I centri diurni per minori nacquero negli anni ‘80/’90 come strutture a carattere semiresidenziale ad alta intensità educativa, alternative alla comunità, con l’obiettivo di prevenire l’ istituzionalizzazione dei minori o di reinserire nel contesto familiare e territoriale il minore precedentemente allontanato dalla famiglia. Secondo il principio fondante di questi servizi, molti dei nuclei con problematicità interne (anche importanti) se supportati in modo adeguato nell’ espletamento dei compiti genitoriali, riescono a mantenere una relazione positiva coi propri figli e ad attivare risorse per accudirli ed educarli.

La prima legge di riferimento fu la L.184/83, seguita e rinforzata dalla L.149/01; entrambe nate per tutelare il diritto del minore a crescere nella propria famiglia, per potenziare le risorse interne nel nucleo e le sue capacità di relazione con l’esterno.

La L.R. 1/1986 “Riorganizzazione dei servizi socio assistenziali della regione Lombardia” fornisce un maggiore chiarimento rispetto ai fini perseguiti da un centro diurno;  al Titolo II, art. 67 essa infatti recita: “Gli Enti responsabili dei servizi di zona promuovono attività di educazione alla salute intesa come benessere fisico, psichico e sociale, tendenti a diffondere le conoscenze sui fenomeni di disagio sociale e sulla prevenzione e cura e promuovono la responsabilità familiare e personale, forme di autonomo soddisfacimento dei bisogni e iniziative di solidarietà all’interno della comunità”; l’art.69 specifica poi, che tali obiettivi di contrasto ai fenomeni di emarginazione, sono da perseguire “in collaborazione con enti istituzioni pubbliche, cooperative e altri soggetti privati”.

Ciò mette in evidenza alcune  delle caratteristiche principali dei centri diurni: l’accesso al servizio socio-educativo è mediato dal Servizio Sociale della Famiglia; ogni nucleo ha un referente sociale e un referente educativo;  oltre che con i servizi sociali, il centro diurno tesse e cura una rete di rapporti con varie realtà pubbliche e private del territorio, quali presidi sanitari, consultori, sportelli psicologici, scuole, Tribunale dei Minori, centri sportivi e altri centri educativi per giovani. L’integrazione forte con il territorio è stato, ed è ancora oggi, uno strumento fondamentale per accompagnare le famiglie verso una ricerca autonoma di risposte ai propri bisogni.

Nell’anno 2000 la L.328 -definita “riforma dei servizi sociali”-  ha riconosciuto fondamentale il ruolo dei soggetti e dei progetti del Terzo settore nell’aggiudicazione dei servizi alla persona, poiché coinvolge sia il pubblico che il privato nell’erogazione di servizi sociali e stabilisce che i privati devono essere prima autorizzati, e poi eventualmente accreditati, per poter partecipare alla rete dei servizi sociali territoriali:

<< le regioni adottano specifici indirizzi per regolamentare i rapporti tra ente locale e terzo settore con particolare riferimento ai sistemi di affidamento dei servizi alla persona>>. L’importanza della L.328 sta nel dare, almeno sulla carta, un fondamento legislativo a una prassi basata su interventi non solo “riparativi” ma di “prevenzione del disagio”.

Sul discorso della prevenzione si segnala che i centri diurni, in origine, hanno svolto una prevenzione sia di tipo primario che di tipo secondario, da un lato perché accoglievano i minori fin dalla seconda infanzia (6-10 anni) e dall'altro perché i servizi sociali era consentito effettuare molti più invii di tipo spontaneo senza essere suffragati da un decreto emesso dal tribunale . Ad oggi le finalità dei centri diurni si concentrano solamente nella sfera della prevenzione secondaria; nel corso dell'articolo analizzeremo le cause e le motivazioni che hanno condotto a questo cambiamento.

Per quanto riguarda le sovvenzioni, ponendo uno sguardo più specifico su Milano, si osserva che i finanziamenti ai centri diurni della città, sono stati erogati attraverso gli obblighi assistenziali derivanti dal DPR 616/77 art. 23 e 24, dalla L. 641 del 1978, dalla L.R. 34/2004 e dalla L.184/83, dalla L.149/01 dalla L.R. 1/86e LR 1/2000. 

In riferimento alla 328/2000, nel 2011 l’amministrazione milanese ha avviato il processo di accreditamento dei Centri Diurni deliberando che qualsiasi ente del privato sociale intendesse essere un "fornitore di questo servizio" e diventare parte del sistema integrato degli interventi e dei servizi sociali, non poteva più essere solo un ente autorizzato. Nel 2012 (con l’ attuazione del Decreto della Regione Lombardia n.6317 del 11 luglio 2011 e del proprio provvedimento di Giunta n. 2709 del 21 dicembre 2012) è dunque partita la sperimentazione del sistema di accreditamento dei servizi residenziali e semiresidenziali <<per perseguire obiettivi di qualità ed efficienza negli interventi relativi ai servizi a favore dei minori e delle loro famiglie>>  .

L’accreditamento rappresenta la condicio sine qua non per accedere ai finanziamenti pubblici o per la stipula di convenzioni o altri accordi contrattuali con il Comune. La fase di sperimentazione, ad oggi, non si è ancora conclusa.

In questo breve excursus legislativo  si è dato rilievo soprattutto alla regione Lombardia e al suo capoluogo; si segnala però che tra le prime regioni ad avere recepito le leggi nazionali e ad aver definito il modello e le finalità del centro diurno ad alta intensità educativa, è stata la regione Piemonte, riferimento della cooperativa nei primi anni ’90 quando diede forma al centro diurno per minori di via Bechi a Milano.

 

IL PRESENTE

I centri diurni per minori, rientrano nei Progetti Socio-Educativi, ossia quei servizi in cui l’accesso è mediato dal Servizio Sociale della Famiglia, in cui vi è commistione tra funzioni sociali ed educative e una integrazione forte con il territorio. I centri diurni prestano costantemente attenzione alle modificazioni sociali, alle trasformazioni dei contesti relazionali, familiari e urbani in cui i minori si trovano a crescere, con l' obiettivo di offrire risposte e interventi adeguati e aggiornati. Gli ultimi quindici anni hanno prodotto, almeno a Milano, un distinguo tra servizi semiresidenziali (come il nostro) e quelli zonali di supporto, che hanno le medesime finalità dei primi ma una strutturazione con una intensità educativa minore.

Se in passato le forme di disagio su cui i centri intervenivano potevano essere inventariate come situazioni di marginalità sociale, di deprivazione economica, culturale e relazionale, oggi non è più possibile  inserire in precise categorie sociali i soggetti in difficoltà e per essi si è rivelata più adatta la definizione di “famiglie multiproblematiche”. Quali fattori costituiscono una "famiglia multiproblematica"? Innanzi tutto, essa può essere di tipo tradizionale, monoparentale o allargata e al suo interno possono rientrare varie professioni, diverse condizioni economiche e disparate storie  personali. I fattori che sono presenti in modo comune in tutte le famiglie multiproblematiche e che quindi consentono di definirle tali sono: almeno un membro manifesta problemi comportamentali o di adattamento sociale o è portatore di una patologia o di una difficoltà psico-sociale (basti pensare a soggetti con disturbi psichiatrici, forme di dipendenza varie, ecc. ) e vi è la compresenza di più difficoltà (ad esempio relazioni o separazioni conflittuali, problemi legati all’alloggio abitativo, situazioni di disoccupazione, lutti, difficoltà o impedimenti organizzativi nell’occuparsi dei figli, ecc.) che insidiano le capacità genitoriali. Tra le famiglie multiproblematiche, hanno un peso crescente quelle di origine straniera con minori (di prima, seconda e adesso anche di terza generazione) in quanto esse necessitano di un sostegno per fronteggiare separazioni o ricongiungimenti  difficili,  problematicità legate all’ambito occupazionale o alla regolarizzazione dei documenti ed hanno l'esigenza di essere supportate in un percorso di orientamento e inserimento nel contesto dei servizi territoriali.

Le complessità sociali sorte e appena descritte, hanno allargato il ventaglio e il numero dei casi in carico ai Servizi Sociali; questi ultimi, nella scelta dei minori da inserire nei centri diurni, hanno iniziato a dare la precedenza ai nuclei familiari che hanno sviluppato un numero maggiore di fattori problematici . Nel tempo questa tendenza è diventata regola, dettando quindi dei criteri di selezione standard per l'accesso. Sono stati dunque ridotti i casi ad accesso spontaneo, ossia quei casi con problematiche meno gravi o non ancora conclamate e non soggetti a provvedimenti del Tribunale. La conseguenza è stata quella di un cambiamento di rotta che ha traslato il senso dell’intervento socio-educativo dal piano della prevenzione a quello della “cura”.

Dal 2009, inoltre, la fascia di età evolutiva dai 6 ai 10 anni, quella in cui sono più incisivi gli interventi educativi e sulla quale è possibile fare una efficace prevenzione primaria,  è stata esclusa dal servizio. Oggi i centri diurni svolgono unicamente una prevenzione di tipo secondario, agendo cioè su forme di disagio già manifeste in soggetti in età preadolescenziale e adolescenziale.

 

I FRUITORI DEL SERVIZIO

Prendiamo ora visione in modo più dettagliato degli utenti del servizio:  come è stato anticipato pocanzi, i minori in carico al centro diurno rientrano nella fascia d’età dagli 11 ai 18 anni, sono preadolescenti e adolescenti, sono quei “ragazzi difficili” figli di esperienze formative spesso inadeguate, quali ad esempio forti conflittualità interne nel nucleo familiare, assenza di una tensione educativa, di una sua continuità o coerenza, carenze nell’accudimento, mancanza di una routine quotidiana, scarse stimolazioni all’apprendimento e alla socializzazione. Le manifestazioni del disagio sono le più disparate e abbracciano le varie gamme di difficoltà di socializzazione e di disturbi comportamentali. Non mancano perciò i casi a rischio devianza e dispersione scolastica. 

Perché questi soggetti hanno bisogno del servizio centro diurno?

Innanzi tutto perché all’interno della loro famiglia si ravvisano risorse e potenzialità da parte dei genitori che possono essere sviluppate e attivate, in secondo luogo perché -seguendo le prospettive teoriche di Piero Bertolini-  <<l’oggetto dell’educazione non è il comportamento da reprimere o da controllare, ma il soggetto, o meglio quel suo particolare vissuto che ne è l’origine. Non si tratta di ri-educare l’agire sociale (o antisociale) ma di condurre il ragazzo verso una progressiva autocoscienza e una rivisitazione del suo modo di pensare e intenzionare la realtà (...) depurandola dagli eccessi che la rendono disfunzionale>>(1). Il centro diurno lavorando sia sul piano individuale che su quello di gruppo, attraverso attività e momenti di confronto, ha tra i principali obiettivi quello di far sviluppare nei minori l'autoefficacia, competenze cognitivo-didattiche e capacità relazionali coi pari e con gli adulti. Si dia ora uno sguardo a quali sono i saperi di riferimento che guidano l’agire degli operatori nel nostro servizio.

 

TEORIE PEDAGOGICHE

Durante momenti di supervisione e di équipe, capita di constatare quanto il nostro modello pedagogico sia contaminato da più pensieri e che abbia struttura aperta  e dinamica. Il nostro modello pedagogico si trova, infatti, proprio all'incrocio tra la valorizzazione di forme diverse di esperienza, di tradizioni diverse e la possibilità di stabilire dei contatti e dei raccordi tra le diverse realtà. Lavoriamo prefigurando un'azione educativa protesa a creare dei contesti di esperienza, a produrre occasioni di valorizzazione e di rielaborazione delle esperienze di tutti i giorni, attraverso pratiche pedagogiche mirate, al di là dell'enfasi della dimensione relazionale. Come diceva Riccardo Massa, crediamo in una specifica attitudine alla “creatività pedagogica”(2), intesa come la capacità di progettare non tanto attività determinate, ma l'insieme delle condizioni che consentono di padroneggiare un dispositivo strategico complesso, volto a istituire il campo dell'esperienza educativa. Viene ad auspicarsi una maggiore dinamicità negli incontri e nei rapporti fra gli ambiti allo scopo di pervenire a una attenuazione della separatezza tra mondi che appartengono in realtà a uno stesso arcipelago.

E' proprio in questa prospettiva che sosteniamo il pensiero di Riccardo Massa relativo a “la clinica della formazione”(3) sull’importanza della supervisione e della consulenza pedagogica nel percorso di formazione degli educatori,  in quanto pedagogisti a pieno titolo possano essere sempre più attenti alla rielaborazione scientifica, soggettiva e professionale di un campo ad alta densità affettiva, cognitiva, relazionale e procedurale, proprio come quale è il nostro.

Imparare errando(4) diceva Massa, L'azione educativa è sperimentazione  enunciava l'educatore francese Célestin Freinet(5), inventore del metodo della cooperazione educativa. L’ apprendimento avviene per "tentativi ed errori ("tatonnement expérimentale"),  attraverso una sperimentazione riflessiva che modifica in itinere metodologie e strumenti per rispondere meglio alle esigenze di chi apprende. Nell' esperienza educativa si conoscono le finalità ma non le strade accidentate per raggiungerle, non ci può essere un percorso predefinito, ma tante strade, tante sperimentazioni. In accordo con Freinet ricerchiamo e stimoliamo negli educatori la capacità di pensare la sperimentazione, utilizzando il lavoro di équipe come  contesto e come tecnica per rendere intelligibile la sperimentazione, la sua direzione e le attribuzioni di significato date da educatori ed educandi.

Dell'approccio sistemico-relazionale, condividiamo l’assunto che il soggetto sia esso stesso un sistema e che l'educatore, agendo sulle singole parti concorra a promuovere il cambiamento del soggetto stesso. La personalità dell’individuo è l’esito di progetti interattivi e la soggettività viene costruita nell’interazione con l’ambiente e gli altri individui. Tale approccio è sotteso anche nel lavoro svolto con e per le famiglie dei minori e con le agenzie esterne territoriali che cooperano al progetto educativo individuale. Gli operatori svolgono un minimo di due incontri in presenza all’anno con la famiglia, con i professori, con gli assistenti sociali e con altri specialisti coinvolti. Il centro diurno svolge poi un ruolo di valorizzazione delle risorse presenti nel contesto territoriale e promuove il lavoro di rete tra i diversi servizi al fine di creare un punto di contatto tra utenza e territorio, utile soprattutto quando il minore terminerà il proprio percorso affrancandosi dal centro diurno.

La teoria dell'empowerment ci viene in soccorso per chiarire che cosa si intende per alta intensità educativa,  o meglio ci aiuta a discernere il nostro tipo di intervento da quello meramente assistenzialista: solo il soggetto può farsi promotore di cambiamenti nella propria vita e il compito dell’educatore è quello di sostenerlo a disvelare e a usare le proprie capacità, potenzialità e risorse. Si punta a incrementare la capacità di controllare attivamente la propria vita e di rinunciare alla delega nei confronti dell’operatore. Gli ospiti del centro diurno, sono soggetti attivi e come tali vengono sollecitati ad essere gli agenti dei percorsi di cambiamento personale e del contesto relazionale in cui si muovono. I progetti individuali educativi tengono in forte considerazione le caratteristiche, le abilità e fragilità del soggetto e del suo ambiente socio-culturale, così da promuovere davvero un percorso rivolto all’acquisizione di autonomia e di autoefficacia.  Utilizzando i termini della filosofia dell’educazione di Raffaele Mantegazza <<l’educazione è sempre rafforzamento della soggettività dei soggetti, campo di esperienza che fa loro scoprire un’ulteriore dimensione della loro soggettività, che ne allarga le maglie, che apre mondi anche all’interno del soggetto, non solo al suo esterno>>(6)

L'educatore lavora su ciò che vede, su quanto osserva quotidianamente e che sperimenta nell’ambito della relazione e della comunicazione; come vuole l' approccio fenomenologico, l'educatore deve guidare l'intervento su ciò che è manifesto, sugli eventi fenomenici, astenendosi da giudizi precipitosi e senza soffermarsi su uno solo di essi, senza cioè la pretesa di inquadrare i fatti concreti in teoremi e schemi prestabiliti.

Approccio narrativo-autobiografico: come sostiene Duccio Demetrio(7), non riteniamo possa esserci ambito di formazione, di lavoro sociale, clinico e scolastico che disconosca l’importanza delle pratiche narrative e, sulla scia di Bruner(8), abbracciamo l'attribuzione di importanza fondamentale nel lavoro educativo del pensiero narrativo che ha la funzione di assegnare e costruire un ordine di significato al mondo e alle esperienze. Attraverso il racconto il soggetto scopre che la propria esistenza ha un senso e un valore unici, la propria vita assume un significato. Il pensiero narrativo è anche pensiero su di sé e relazione d’aiuto; l’ autobiografia è una cura poiché il racconto mette in comunicazione con se stessi e con gli altri e, facendo riflettere sul proprio passato, diventa un modo per imparare a conoscersi meglio e ad accettarsi. In questo approccio è di fondamentale importanza la dimensione dell’ascolto, la relazione tra il soggetto che narra la propria storia e l’interlocutore che deve assumere tecniche e atteggiamenti favorevoli alla narrazione e alla relazione.

Infine citiamo un altro metodo  educativo da noi adottato, coerente con la prassi di lavoro simultaneo sul gruppo e sull’individuo: la peer education;  tale approccio ha proprio il gruppo come campo di interesse e di azione, promuove l’educazione tra pari e l’attivazione di un processo spontaneo di passaggio di conoscenze, emozioni ed esperienze da parte di alcuni membri del gruppo su altri membri di pari status. La sfera comunicativa, relazionale e di condivisione di esperienze è fondamentale. Attraverso la valorizzazione e il riconoscimento di competenze, alcuni minori vengono investiti di un ruolo e di responsabilità, gli altri non sono considerati soggetti da istruire ma propri pari con potenzialità ancora da scoprire e sviluppare. Al centro diurno, la peer education viene attivata in momenti strutturati laboratoriali (ad esempio nelle attività artistico-manuale, di cucina e di estetica), durante l’attività di studio e nei momenti assembleari .

Concludiamo questo capitolo rimarcando la convinzione che la prospettiva teorica in ambito pedagogico debba avvalersi di più contribuiti e mantenere una struttura aperta e a tal fine citiamo una ammonizione contenuta in uno dei testi del professor Prada, relativa al rischio di concepire la relazione come l’unica modalità educativa: << il rischio sembra essere questo: la comprensione della relazione come unica e esclusiva modalità educativa, come se la relazione definisse il campo dell’educazione e l’educazione si risolvesse … esclusivamente in un lavoro di relazione. … prerogativa dello sguardo pedagogico è poter vedere e quindi pensare l’esperienza educativa come un’esperienza complessa che trova la sua specificità nella particolare modalità in cui le dimensioni illuminate dagli sguardi delle altre scienze dell’educazione si combinano di fatto tra loro, dando adito, nella materialità, nella storicità e nella dinamicità di una precisa situazione, a particolari effetti formativi, rintracciabili nei cambiamenti sviluppati nei singoli soggetti, nonché nella forma delle interazioni, nella disposizione e nella cultura dell’ambiente in cui la prassi educativa accade>>(9)

 

COME LAVORA IL CENTRO DIURNO: LA PRESA IN CARICO, LE DIMISSIONI, L’ORGANIZZAZIONE,  IL LAVORO D’ EQUIPE  E LA FUNZIONE DI COORDINAMENTO

L’accesso al servizio avviene su mandato dell’assistente sociale, in accordo con il minore, con la famiglia e previa autorizzazione dell’Amministrazione Comunale. Vi è il pagamento di una retta da parte della pubblica amministrazione agli enti gestori.

La presa in carico del minore si sviluppa in tre fasi: la prima è quella dell’incontro tra il coordinatore del centro diurno, l’assistente sociale di riferimento e, laddove siano presenti, tutti gli operatori dei servizi socio-sanitari coinvolti (comunità, u.o.n.p.i.a., Adm, ecc.) per la raccolta delle informazioni necessarie alla valutazione dell’opportunità dell’inserimento; la seconda fase è rappresentata dalla discussione del “caso” nell’ambito dell’équipe educativa, ove si si valuta il possibile percorso di aiuto da attivare, quale operatore affidare al minore, tutto ciò tenendo conto delle caratteristiche, della personalità, delle problematiche dell’individuo, della sua famiglia e della complessità del sistema di relazioni coinvolto; nel terzo momento, avviene la presentazione del minore all’équipe e all’educatore che diventerà il suo punto di riferimento quotidiano. Dopo la presa in carico, inizia la fase dell’osservazione finalizzata alla definizione del progetto d’intervento, alla sua durata e alla sua attuazione. La definizione del progetto d’intervento individua modalità, obiettivi a breve e a lungo termine per accompagnare verso una positiva evoluzione la storia di disagio e sofferenza del minore. Tale progetto viene pensato, condiviso, messo in discussione e infine ratificato in équipe.

Nel ciclo di lavoro, riveste molta importanza anche la fase conclusiva del percorso educativo, ossia le dimissioni e l’accompagnamento ad esse. <<Come avviene per la presa in carico, anche per la conclusione del progetto di intervento si prevede la partecipazione dell'équipe affinché la decisione sia un fatto collettivo, di servizio e non un'esigenza personale>>(10). La chiusura dell’intervento coinvolge anche i Servizi Sociali territoriali di riferimento; il processo di aiuto deve essere chiuso quando sono stati raggiunti gli obiettivi, <<questa è una fase essenziale che dà valore all'intervento anche se non sempre gli esiti sono positivi rispetto al cambiamento desiderato>>(11). In alcuni  casi le dimissioni sono causate dalla mancanza di adesione al progetto sia da parte del minore che della sua famiglia, i quali si rifiutano di proseguire l’esperienza; in altri casi ancora la famiglia si trasferisce altrove, fuoriuscendo dal bacino dei servizi sociali di riferimento.

Passiamo ora ad una breve descrizione dell’organizzazione: il centro diurno accoglie i minori per dodici mesi all’anno, dall’ora del pranzo alle sette di sera durante l’anno scolastico, a partire dalla mattina durante le vacanze scolastiche. Ognuno di loro rientra in famiglia alla sera. La struttura può accogliere circa trentacinque minori che, in passato, frequentavano il centro sei giorni a settimana, mentre oggi, in seguito a politiche di ristrutturazione del welfare nonché a una diminuzione delle risorse pubbliche destinate alle politiche sociali, le frequenze sono diminuite raggiungendo una media di una ventina di ospiti con una frequenza media di tre giorni su cinque a settimana. Il centro organizza anche gite e vacanze. Ogni giornata è strutturata secondo una routine: il pranzo collettivo con gli educatori, lo studio in gruppo in stanze, la merenda e le attività (di tipo sportivo, espressivo, artistico manuale, culinario, ecc.). Per ogni attività è redatta una progettazione completa di obiettivi, metodologia, indicatori, diari e fasi di validazione. Per ogni minore è scritto un Progetto Educativo Individuale con elaborazione di obiettivi, indicatori e metodologie, seguito da valutazioni trimestrali e una verifica annuale. Il servizio stesso, è soggetto ad una relazione semestrale di verifica dell’andamento attraverso la quantificazione, la misurazione e la comparazione di tutti i dati disponibili. Insomma, come ha scritto il professore Mantegazza << l’esperienza educativa possiede una sua concretezza, una sua fisicità…che rende conto della possibilità di analisi quantitativa, di misurazione, di progettazione degli interventi attraverso metodologie scientifiche…l’esperienza educativa si dota … di un campo empirico di analisi, riflessione e progettazione>>(12).

 

La vita del servizio e il lavoro degli operatori  sono dunque scanditi da una progettazione e da una programmazione. Che cosa vuol dire? Ricorriamo ad Agnese Infantino per darne una definizione: <<Contenuti, strategie, coordinate spazio-temporali, metodi e tecniche, esperienze socio-cognitive e processi relazionali, dimensione di gruppo e individuale, sono alcuni dei molti temi che il lavoro di programmazione e di progettazione seleziona, organizza e predispone, definendo specifici campi di azione. … Programmare implica lo svolgimento di un percorso strutturato rispetto al raggiungimento di uno scopo determinato, per il quale vengono pianificate e organizzate una serie di attività, definendone modi e tempi di realizzazione. La progettazione evoca scenari in cui prevale l’attività ideativa e creativa, maturata nel corso di processi di pensiero e di proiezione ipotetica su aspetti e fenomeni della realtà, da cui hanno origine specifici disegni e progetti di intervento. La progettazione è concepibile come antecedente alla programmazione e si delinea come sfondo nel quale trovano precisa collocazione le pratiche e le strategie per organizzare e realizzare concretamente, nella contingenza del contesto, il progetto disegnato>>(13).

Nel centro diurno ai fini della progettazione e della programmazione, l’équipe svolge un valore determinante.  Infatti è in équipe -alla presenza degli educatori, del coordinatore e del responsabile dell’area educativa-  che avvengono le esposizioni delle osservazioni svolte, le proposte progettuali sui minori e sulle attività, avviene il confronto su problematiche, sui dubbi, sulle valutazioni e sulle verifiche dei lavori intrapresi. L’équipe si riunisce settimanalmente e si avvale una volta al mese del contributo esterno di supervisori.  << E’ competenza dell’équipe nel suo complesso definire il progetto di recupero nei confronti dell’utente, … ogni professionalità coinvolta deve sviluppare  il proprio percorso di aiuto non in modo indipendente e parcellizzato; l’intervento deve risultare complessivo e globale per trasmettere all’utente comportamenti e messaggi univoci, come se espressi da un’unica  entità. Gli operatori devono percepirsi e riconoscersi come un’équipe, essere una task force allineata all’interno del progetto dove i confini professionali definiscono le aree di competenza, … i componenti dell’équipe hanno un buon livello di comunicazione che privilegia la  strutturazione di relazioni interpersonali mirate all’obiettivo>>(14)

In una tal organizzazione, il coordinamento  diventa la condizione necessaria per conseguire condizioni di efficacia lavorativa sia interna che esterna. Il coordinatore, da un lato, deve svolgere la funzioni di controllo e di verifica di tutte le attività avviate e del rispetto delle modalità e procedure stabilite, dall’altro, si deve occupare di costruire e mantenere relazioni interpersonali positive con i propri operatori e con i soggetti con cui il servizio collabora. <<La funzione di coordinamento  è quella di presidiare il servizio e di valorizzare le competenze. … occupa una posizione interstiziale o transizionale, orientata sia alla ricerca di un equilibrio e di una regolazione tra istanze gruppali, … sia alla ricerca dei compiti di produzione derivanti dagli obiettivi e dalle esigenze progettuali del servizio, e presidio delle interazioni tra organizzazione e realtà esterna, connessa all’identità e al tipo di risposta a determinati problemi che il servizio vuole esprimere all’interno del più ampio contesto in cui è inserito>>(15).

Coerentemente alle teorie pedagogiche sopra descritte, il nostro servizio abbraccia l’approccio di coordinamento situazionale per << rileggere la condizione del coordinamento pedagogico attraverso la chiave di lettura della teoria della leadership situazionale, che supera i modelli tradizionali arrivando ad affermare che non esiste un modo giusto di “essere capo”, e non è possibile definire un solo stile di leadership che sia coerente con tutte le variabili di contesto possibili, ma al contrario, lo stile deve essere scelto in funzione delle diverse situazioni che il leader si trova di fatto a gestire>>(16). Dunque si ritiene che i vari stili di coordinamento - direttivo, supportivo, partecipativo e cooperativo - possono essere tutti ugualmente necessari e validi in rapporto alle condizioni di maturità (valutata su competenza, disponibilità e autonomia)  dei collaboratori. Il coordinatore in ogni situazione, decide se privilegiare la relazione oppure i contenuti tecnici-professionali, stando però attento a dare importanza a tutte le dimensioni. Per esempio se in riunione il suo comportamento è più centrato su annotazioni e rimandi strettamente professionali (rimandi a scadenze, controllo o osservazioni sul lavoro compiuto o non svolto, individuazione di strategie, obiettivi, valutazione dei risultati raggiunti, pianificazioni, ecc.), altrove il suo comportamento deve tendere al favorire buoni rapporti con gli operatori, fornendo loro anche supporti mediante interazioni frequenti, scambi di opinioni, interesse, attenzione e ascolto attivo, comunicazioni franche ed esplicite, restituzioni specifiche e rimandi personalizzati.

Nel nostro centro diurno le mansioni di coordinamento sono impiegate sia dal responsabile di area che dalla figura di un educatore che ha acquisito funzioni di coordinamento. La scelta in parte è conseguenza del ridimensionamento del servizio che abbiamo descritto sopra, ma è stata anche una scelta consapevole che mira a valorizzare gli esiti dello stare a stretto contatto con gli utenti; in questo modo il coordinatore acquisisce una conoscenza non mediata delle caratteristiche e dei bisogni dei ragazzi, può dare un contributo contenutistico importante nella definizione dei progetti individuali e nella costruzione delle reti  con le famiglie, i servizi sociali e le altre agenzie territoriali. Il coordinatore oltre a queste mansione ha il compito di far rispettare le procedure del sistema di qualità UNI EN ISO  9000:2008 in vigore dal 2015 all’interno del Centro Diurno.

 

QUANDO E COME SI VALUTA IL SUCCESSO DI UN INTERVENTO EDUCATIVO?

Poiché i progetti d'intervento che si pongono come obiettivo il cambiamento individuale, familiare e/o sociale sono soggetti alla non prevedibilità certa del risultato (e per questo motivo parliamo di realizzazione sperimentale del progetto sul minore, ponendo l'accento sulla necessità di considerare il percorso di aiuto un fatto dinamico e modificabile), diventa centrale l'attivazione di strumenti di valutazione in itinere, finali e a posteriori dei risultati del progetto di intervento sul minore.

La valutazione è principalmente un atto riflessivo, di confronto e di analisi e si articola in più fasi:

-un primo tipo di valutazione effettuata dall'educatore e dall' équipe è quella quotidiana basata sull'osservazione nell’interazione con il minore nel gruppo e nel contesto ambientale che si avvale della scrittura di un diario;

-segue una valutazione mensile in équipe per monitorare le retroazioni positive e/o negative in relazione agli input proposti, per inserire correzioni, comprendere e disattivare le resistenze dell'utente e/o della famiglia;

-il progetto educativo sul minore viene valutato trimestralmente mediante la stesura di una relazione (condivisa con gli assistenti sociali) con lo scopo di monitorare la validità degli obiettivi e l'efficacia della metodologia stabilita. L'équipe deve dotarsi di “capacità di correzione”, cioè deve saper definire variazioni di strategie all’interno del progetto definito.

Per i nuovi ingressi, la prima valutazione trimestrale è necessaria per verificare l’opportunità della scelta di inserimento e l'idoneità del servizio rispetto al  minore e alla sua famiglia;

-vi è poi una verifica annuale redatta dall'educatore di riferimento che viene sottoposta a una condivisione e a una discussione nell'ambito di incontri d'équipe convocati appositamente per fare un bilancio del lavoro di un anno;

-infine esiste una verifica a posteriori che si realizza dopo un follow up di almeno due anni dalla fine della frequenza del centro del minore. Il contesto di verifica è quello conviviale di una festa o di una cena al centro in cui gli ex ospiti si ritrovano e si raccontano.

 

È, quindi, attraverso gli strumenti della verifica e della valutazione  che si ritrova il significato delle azioni programmate e realizzate; per misurare il cammino percorso si usano gli indicatori precedentemente individuati. L'indicatore permette una facile misurazione del grado di raggiungimento o meno degli obiettivi relativamente ai progetti individuali e alla valutazione sull'andamento del servizio. 

Gli indicatori del successo dell'intervento educativo sul minore e sulla famiglia sono:

La permanenza nel proprio nucleo di origine e nel territorio di riferimento (scuola, gruppo di pari, ecc.); il ridimensionamento della situazione di disagio familiare, scolastico e sociale; acquisizione delle competenze emotivo- relazionali necessarie per elaborare e comunicare vissuti, per prendere coscienza del proprio disagio e delle possibilità del cambiamento; acquisizione di capacità socializzanti che gli permettono una positiva integrazione nel gruppo dei pari; una soddisfacente relazione con gli adulti di riferimento in famiglia e nella scuola; un adattamento creativo alla realtà sociale e di adeguamento alle regole del vivere sociale; acquisizione di consapevolezza dei propri limiti e delle proprie risorse; ricostruzione di una positiva immagine di sé (autostima, protagonismo e capacità di risolvere i problemi)

Più in generale, gli indicatori valutativi afferenti al servizio riguardano il “disvelamento” di situazioni di grosso rischio che richiedono un rapido intervento a tutela dei minori e/o riparativo, l'individuazione e l'attivazione di risorse, equilibri e interazioni positive nel contesto familiare relativamente alle capacità educative e di accudimento dei figli e di risoluzione dei problemi concreti e, infine, la restituzione agli enti invianti di un quadro della situazione personale, familiare, scolastica e relazionale del minore, articolato, approfondito e migliorato rispetto a quello iniziale.

 

Chiudiamo così questo contributo sperando di avere reso al meglio la complessità delle cose e al tempo stesso di aver trasmesso un po’ della passione con cui svolgiamo il nostro lavoro. Anche per noi l’auspicio è che questo sito possa diventare <<in quanto a materialità educativa una ricorrenza e un luogo di ritrovo anche per i professionisti del settore in genere...>>.

 

 

Bibliografia

1) Piero Bertolini, Letizia Caronia “Ragazzi difficili”. Ed. La Nuova Italia.

2) Tratto da “Creatività pedagogica” intervista a Riccardo Massa

3) Riccardo Massa, “Clinica della formazione”

4) Riccardo Massa, “Imparare errando”

5) Celestin Freinet; “Le mie tecniche”, Nuova Italia Firenze

6) Raffaele Mantegazza “Filosofia dell’Educazione”. Bruno Mondadori    

7) Duccio Demetrio (a cura di) “L'educatore auto(bio)grafo. Edizioni Unicopoli

8) Bruner “La cultura dell'educazione” Feltrinelli Ed., Bruner “La ricerca del significato per una psicologia culturale”. Ed. Boringhieri

9) Giorgio Prada e Cristina Palmieri Non di sola relazione, per una cura del processo educativo. Mimesis Edizioni

10) Stefania Miodini e Maria Teresa Zini L’educatore professionale. Edizione La Nuova Italia Scientifica

11) Stefania Miodini e Maria Teresa Zini L’educatore professionale. Edizione La Nuova Italia Scientifica

12) Raffaele Mantegazza Filosofia dell’Educazione Bruno Mondadori

13) Agnese Infantino Progettazione pedagogica e organizzazione del servizio.  Guerini Editore

14) Stefania Miodini e Maria Teresa Zini L’educatore professionale. Edizione La Nuova Italia Scientifica

15) Luigi Regoliosi e Giuseppe Scaratti Il consulente del lavoro socioeducativo Carocci Editore

16) Ennio Ripamonti Il coordinamento pedagogico situazionale,

saggio pubblicato in Premoli S. (a cura di) Il coordinamento pedagogico nei servizi socioeducativi. Franco Angeli Editore

 

a cura di

Alessandra Calarco, coordinatrice del servizio educativo.

Silvio Tursi, Responsabile di Area e Presidente della Cooperativa

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Centro diurno per minori Tempo per l'Infanzia  

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hanno contribuito

Davide Manzo

Valentina Ambrosini

Nicole Martinoli

Rosita Vitarelli

Martha Martinez

Roberta Daniele

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