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LA SUPERVISIONE EDUCATIVA NEI NIDI 
RISPETTO ALLA RELAZIONE CON I BAMBINI E I GENITORI

Workshop condotto da: Daniela Nardellotto, Comune di Bollate


Autori del testo: Francesca Arienti, Diana Calabrese, Martina Di Lucca, Stefano Fabro, Maria Letizia Galimberti, Nicole Gambarelli, Martina Gaudenzi, Giulia Larovere, Lucia Malorzo, Ilaria Quieti, Chiara Zanzottera.

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Il workshop a cui abbiamo partecipato si è svolto presso l’asilo nido “Il Giardino dei Ciliegi” di Bollate e si è focalizzato sulla questione dei rapporti che si vengono a creare tra le educatrici, la coordinatrice, i genitori e i bambini. Inoltre ci siamo concentrati anche sul concetto di genitorialità. 
Il workshop è stato condotto dalla Dott.ssa Daniela Nardellotto, che ci ha accompagnato nell’indagine di due temi principali: il ruolo del professionista di secondo livello, concentrando lo sguardo sull’approccio da loro usato (il metodo introdotto da Brazelton). 

Il pedagogista nel nido
Il pedagogista si trova a sperimentarsi in contesti molto differenti tra loro (sia per tipologia di proposta, di servizio, per identità culturale, e così via); il suo ruolo, i suoi confini e le richieste a lui/lei fatte sono molto differenti tra di loro.
Ciò rende necessaria una formazione sì continua ma anche specifica.
Lavorare all’interno di un nido richiede (anzitutto, ma non solo) delle conoscenze che possono dirsi specifiche.
In primis è fondamentale conoscere i bisogni evolutivi della fascia 0-6 , per poter pensare e progettare proposte educative e pedagogiche coerenti con essi.
Le ricerche e dunque la conseguente letteratura nell’ambito della prima infanzia sono corpose e in continua evoluzione: cambia l’idea di servizio , cambia l’idea di neonato  e di bambino, ma muta anche il concetto di genitorialità. È dunque necessario che cambino i riferimenti culturali degli educatori, ma anche e soprattutto delle figure di secondo livello all’interno del contesto e questo poiché diventa fondamentale potere e sapere leggere i processi all’interno del servizio in cui ci si trova. 
Ogni servizio, infatti, si struttura tramite processi che ne definiscono una specifica identità culturale (Wenger, 2006) che, pur non essendo mai stabile e fissa, determina ciò che il servizio è, come pensa e ciò che offre. 
In questo senso, è importante che il coordinatore (e, più in generale, la figura di secondo livello presente in un servizio) trasmetta la rilevanza dell’organizzazione dell’ambito e dello spazio nei servizi per l’infanzia al fine di renderli interessanti per i bambini.
Per ottenere ciò è fondamentale riconoscere il ruolo del costante investimento in ciò che si fa, nel proprio lavoro, a 360°.
Un pedagogista dovrebbe essere in grado di porsi domande e crearsi curiosità e interrogativi rispetto a come il nido risponde ai bisogni evolutivi, come sostiene le emozioni (dei bambini, dei genitori e delle educatrici ), come sostiene la genitorialità. Per poterlo fare, è necessario che i suoi paradigmi e riferimenti teorici siano chiari, delineati ma anche sempre aggiornati .
La professionalità di una figura di secondo livello si può continuamente costruire anche attraverso le possibilità di confronto con operatori dello stesso livello, per evitare che sia “solo” all’interno di un servizio e risultare all’interno di questo eccessivamente invischiato. 
Il fatto di porsi continuamente in una condizione di ricerca interrogativa, potrebbe sembrare fonte di spaesamento; in realtà vi è una certezza: la conoscenza dello sviluppo che permette di capire e leggere, nel modo più consapevole possibile, i processi che avvengono all’interno del servizio in cui si opera. 
Ciò permette di migliorare la progettazione, offrire maggior capacità di risposta ai bisogni degli utenti, così come aumentare il sostegno alla genitorialità.
Sostenere la genitorialità significa condividere con la madre e il padre l’osservazione dell’evidenza del bambino (evitando quindi il più possibile un’osservazione interpretata). Questo permette alle figure professionali di non fornire alle famiglie ricette, aspettativa molto frequente da parte dei genitori.

Abbiamo iniziato ad analizzare l’importanza dell’aggiornamento e della formazione sia per gli educatori che per i coordinatori, che rappresentano delle figure di tramite. Il ruolo del professionista di secondo livello è quello di concentrarsi su un pensiero più ampio, a differenza delle educatrici che invece lavorano nel qui ed ora.
Il pedagogista, inoltre, deve essere in grado di aiutare gli operatori (in particolare gli educatori) che, in quanto sono impiegati direttamente nella materialità educativa, non sempre possono dedicarsi a un pensiero metacognitivo, che invece caratterizza la pratica pedagogica di secondo livello; gli educatori infatti sono legati strettamente all’accadere educativo, pertanto necessitano di un aiuto “altro” da parte di colui che conosce la materia da un altro punto di vista, cioè più riflessivo e meno sfuggente rispetto al “qui e ora”. Il pedagogista sostiene le educatrici rispetto al loro “stare” in situazione.
Il pedagogista sviluppa la sua professionalità nell’ascoltare e nel riportare ciò che concorda con le educatrici. È fondamentale che il professionista di secondo livello sostenga le educatrici in quanto fortemente implicate nella relazione con le famiglie, in cui cercano di accompagnare i genitori nella lettura dei bisogni dei loro bambini. 
Le educatrici hanno, infatti, un ruolo importante soprattutto nel rapporto con la famiglia perché è attraverso le loro parole che il coordinatore può intervenire per ricercare la soluzione migliore di cui necessita la famiglia. 
Il pedagogista sostiene, legge il lavoro delle educatrici ed osserva anche la relazione che quest’ultime creano con i bambini. Fare un lavoro di secondo livello vuol dire continuare ad approfondire e studiare per migliorare il proprio servizio, tenendo sempre a mente che l’approccio educativo che si sceglie di applicare va ad influenzare la globalità del servizio, ogni suo processo, ogni spazio, attività proposta, il tipo di relazioni che si instaurano, ecc. Quindi è necessario che l’approccio, a partire dai suoi presupposti, venga riconosciuto e condiviso da chi opera all’interno dell’ente.  I presupposti di un qualunque approccio sono fondanti per l’agito di tutte le figure professionali di un servizio, ma soprattutto per l’operatore di secondo livello, in quanto risultano essere per lui le cornici con le quali leggere l’accadere e con cui agire.
In questo senso il lavoro del professionista di secondo livello non risulta facile: è cura della qualità del lavoro delle educatrici. 
Dopo aver parlato in generale del servizio e del ruolo del coordinatore siamo entrati nel merito del metodo che viene utilizzato al suo interno, ovvero il metodo Brazelton.
L’approccio Brazelton vede la supervisione di un’équipe di lavoro con educatori, suddivisa in un gruppo generale ed uno di équipe di sezione. 
Per quanto riguarda l’équipe di sezione, la supervisione educativa si basa sulle osservazioni che le educatrici riportano sul loro lavoro con i bambini, sulla relazione che hanno creato con la famiglia e le comunicazioni con quest’ultima. Ciò che emerge da queste riunioni può essere utile anche per una condivisione con il gruppo di lavoro. Le equipe generali, invece, si realizzano attraverso un collettivo che riunisce tutte le educatrici del servizio e riguardano questioni più meta ma anche organizzative, che comunque hanno un effetto sugli aspetti pedagogici perché si intrecciano continuamente.
Tutte le educatrici devono non solo conoscere l’approccio, ma anche condividerlo e riconoscerlo, affinché lo stesso possa essere messo in pratica e risulti così comprensibile il lavoro educativo di secondo livello. 
Come già sottolineato è importante che l’approccio scelto sia prima di tutto conosciuto e poi condiviso da tutti gli operatori del nido, perché influenza tutti i processi (relazioni, spazi, proposte) e, conseguentemente, il lavoro di supervisione. 
Conoscenza e condivisione sono per questo motivo i presupposti fondamentali sia per le educatrici, nella relazione del qui e ora, sia per la figura di secondo livello nella fase di supervisione e ascolto delle educatrici perché costituiscono delle cornici di riferimento per la lettura dei processi e, di conseguenza, delle scelte che verranno prese in base all’approccio prestabilito.
In questo caso le cornici di riferimento si rifanno all’apparato teorico del pediatra e psichiatra americano Brazelton.
Brazelton, prendendo spunto da Winnicott e dagli studi di quest’ultimo sulla relazione mamma/bambino, giunge a sostenere che il bambino non è una tabula rasa, ma è attivo e competente fin dalla nascita. Ciò comporta per gli operatori una necessaria presa visione del bambino differente a quella del passato: il bambino è attivo e competente fin dalla nascita e, per questo, in grado di scegliere e autoregolarsi, anche se non autonomo (autoregolazione non significa autonomia) in quanto ha il bisogno primario di relazionarsi con l’altro.  
È necessario provvedere a uno spazio che consenta al bambino di potersi muovere e sviluppare le capacità motorie.
A tal proposito, si può certamente essere d’accordo con le parole del pedagogista Ivano Gamelli (2011, p. 3), quando afferma che il corpo e la mente sono “inscindibili l’uno dall’altro come due facce della stessa medaglia”, a tal punto che lo stesso autore parla di corpo delle espressioni, intendendo con questa locuzione il fatto che senza corpo non sarebbe possibile alcuna espressione del pensiero. Citiamo Gamelli proprio perché l’approccio della Pedagogia del corpo - utilizzato da tale autore - viene ampiamente tenuto in considerazione presso l’asilo nido di cui stiamo trattando. Infatti, il bambino lasciato libero di esplorare, di correre e di esprimere se stesso nei modi a lui più congeniali; è un bambino che forma la propria personalità e cresce, secondo quei bisogni evolutivi cui facevamo riferimento prima.
Lo sviluppo, sotto certi aspetti, è differente per ogni bambino e pensare nella pratica ad organizzare spazi e strutturare proposte non è semplice né immediato; anzi, è estremamente difficile accogliere le diversità.
Ciò che ci rende unici fondamentalmente è il nostro approccio alla vita e il temperamento, che ci dà forma fin dalla nostra nascita (infatti si mostra già dalla seconda o terza settimana di vita).
Nei bambini sono stati individuati tre tipologie di temperamento: 
-    attivo: il bambino è vivace, richiede maggiori attenzioni da parte del genitore, soprattutto in presenza di stimoli. Durante i risvegli notturni non si riaddormenta da solo ma piange, richiedendo l’intervento del genitore;
-    sensibile: temperamento più difficile e meno diffuso, frequente nei bambini nati pre-termine o che hanno avuto difficoltà durante il parto. Il bambino con tale tipologia di temperamento risulta molto vulnerabile, facilmente “va a pezzi” e, per i genitori, è difficile trovare delle strategie utilizzabili e soprattutto funzionali;
-    tranquillo: non è disturbato dagli stimoli esterni, nel passaggio dal sonno alla veglia riesce a farcela da solo e i genitori sono molto tranquilli nella sua gestione.  
Lo sviluppo è diverso da bambino a bambino, e non è lineare. Infatti, lo sviluppo del bambino è caratterizzato da alternanze di momenti, periodi evolutivi, che si alternano a momenti di regressione e di forte disorganizzazione. Questi momenti sono universali, indipendenti dalla cultura, dalla famiglia di origine e sono prevedibili.
Berry Brazelton, ideò il modello dei Touchpoints o “Punti salienti dello sviluppo”. Questi momenti precedono quel salto migliorativo nello sviluppo comportamentale, motorio, cognitivo ed evolutivo del bambino. 
Brazelton li individua a 2-3 settimane dalla nascita, 2 mesi, 4 mesi, 7 mesi, 9 mesi, 12 mesi, 15 mesi, 18 mesi, 24 mesi, 30 mesi e 36 mesi e si possono osservare fino all’etá di sei anni (dopo il 2° anno di vita questi momenti si presentano solo due volte l’anno).
I touchpoints, secondo Brazelton, sono comportamenti universali e prevedibili e meno disorientanti se il genitore è in grado di identificarli e, quindi, comportarsi conseguentemente fornendo risposte adeguate al bisogno mostrato dal bambino. 
Questi momenti di regressione colpiscono le aree principali dove i bambini raggiungono obiettivi e conquiste molto importanti come, ad esempio, l’area del sonno, dell’alimentazione, dell’autonomia.
Questi periodi regressivi dello sviluppo spaventano spesso i genitori, che entrano in crisi, in quanto osservano il proprio bambino regredire rispetto a qualcosa che aveva già acquisito, ed è proprio questo che fa scaturire ansia nella figura genitoriale.
Come detto sopra, il genitore dovrebbe essere in grado di percepire tali regressioni come un momento di passaggio della fase evolutiva del bambino, ma non sempre riesce ad osservare tali comportamenti in maniera adeguata e qui subentra il compito del professionista di primo livello nel supportarlo e tranquillizzarlo, in quanto è a conoscenza del fatto che queste regressioni sono naturali e perciò prevedibili.  Il professionista di secondo livello ha il compito, invece, di guidare sia gli operatori di primo livello, sia i genitori che non riescono a comprendere le situazioni.
Questi stadi di regressione, se non conosciuti mandano in crisi tutto il sistema famigliare. 
Seguendo quanto sostenuto da Brazelton è fondamentale riferire tutto ai genitori mettendoli nelle condizioni di anticipare questi momenti, senza dare loro la possibilità di interpretare e dare giudizi personali agli eventi.
E’ fondamentale saper affiancare i genitori, senza però fornire loro consigli o possibili soluzioni: ogni genitore conosce il proprio bambino e sa cosa è necessario fare. Per non dare giudizi e per dire ai genitori cosa bisogna fare o cosa non fare, si usa il linguaggio comportamentale del bambino tramite l’osservazione, basato sulle sue competenze (in cosa è bravo; ad esempio: se il genitore mostra preoccupazione a causa del ritardo del bambino nel passare dal pannolino al vasino, il professionista dovrebbe sottolineare le competenze raggiunte dal bambino stesso, come il fatto che si arrampichi o salti dalla spalliera spiegando al genitore che questa è una fase precedente al momento auspicato.)  
Il nido che ci ha ospitati, inoltre, ha una spiccata predisposizione alla psicomotricità che caratterizza fortemente l’approccio educativo. Tutte le sale sono ricche di sagome di gommapiuma da impilare, affiancare, trasformare in luoghi dove sostare da soli o con gli altri bambini, una proposta di materiale quasi completamente destrutturato. Questa particolare idea di spazi e materiali per un nido crea molte curiosità che, per motivi di tempo, non possiamo approfondire ma ci rimane, in generale, l’immagine di coerenza, di toni cromatici, di stile educativo, di ampiezza degli spazi. Tutto questo sembra essere in linea, oltre che con l’approccio e la cultura educativa di quel servizio, anche con lo stile di conduzione descritto in questo report.

                                                          

Bibliografia


Gamelli I., (2011), Sensibili al corpo. I gesti della formazione e della cura, Raffaello Cortina Editore, Milano.
Mantovani S., Restuccia Saitta L., Bove C. (2003), Attaccamento e inserimento. Stili e storie delle relazioni al nido, Franco Angeli, Milano.
Oggionni F. (2013), La supervisione pedagogica, Franco Angeli, Milano.
Rezzara A., Ulivieri Stiozzi S. (2004), Formazione clinica e sviluppo delle risorse umane, Franco Angeli, Milano.
Wenger E. (2006), Comunità di pratica. Apprendimento, significato e identità, Raffaello Cortina Editore, Milano.

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