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Verso il superamento della giusta distanza

L'incontro tra luci e ombre delle storie degli educatori con le storie delle famiglie, nei servizi educativi territoriali

INTRODUZIONE. I nostri interrogativi guida

Come nominare, descrivere, narrare in pochi minuti e poche righe il nostro sapere pedagogico a proposito del lavoro educativo con le famiglie? Dove trovare un incipit per riuscire ad argomentarne la complessità, le implicazioni emotive, i chiaroscuri, le possibilità?

L’Università ci assegna un compito arduo e ambizioso: provare a dare forma ad una domanda o ad una teoria pedagogica in merito a una tematica educativa di nostra elezione, incontrando un piccolo gruppo di studenti del corso di laurea magistrale in scienze pedagogiche.

E noi, entrambi coordinatori di servizi domiciliari e scolastici rivolti a bambini e ragazzi con disabilità o in situazione di disagio sociale ed educativo, spesso nell’ambito della tutela del minore, scegliamo di esplorare l’interessante ambito dei pre-supposti, spesso dati come assunti di base, del lavoro educativo con le famiglie. Lavorare con un “minore” significa per noi incontrare la sua famiglia, entrare nel suo mondo relazionale e introdurre elementi di cambiamento finalizzati all’evoluzione del sistema educativo familiare nel suo complesso. Questo è già il nostro primissimo pre-giudizio.

Non solo. L’esperienza ci ha insegnato che questo incontro rivela e risveglia dimensioni personali ed esistenziali che hanno a che fare con l’umano di entrambi. Noi coordinatori siamo spesso lì, vicini a questa umanità palpabile: una lacrima dell’educatore in un momento di difficoltà, una richiesta di aiuto, la narrazione entusiasta di un risultato raggiunto, di un grazie ricevuto; la confidenza di un profondo turbamento o di un coinvolgimento affettivo andato oltre… Il nostro compito è quello di affiancare l’educatore in cammino e ricercare insieme il sentiero.

Dunque la motivazione a interrogarsi sull’intreccio vita personale/vita professione è sempre alta e profonda: il lavoro pedagogico di secondo livello si colloca spesso/sempre sul crinale, dove il pedagogico professionale si incontra/scontra con l’ esistenziale. Per dirlo con altre parole, coordinare un servizio educativo implica considerare l’esperienza umana come substrato necessario ed essenziale all’intervento professionale.

Sono dunque questi i “nostri” pre-giudizi, che ci hanno spinto a intitolare il nostro workshop: Generare nuove storie. L'incontro tra luci e ombre delle storie degli educatori con le storie delle famiglie, nei servizi educativi territoriali.

L’aspettativa fiduciosa è  che attraverso il potere evocativo e simbolico delle metafore emergano e si generino nuove prospettive e piste originali di riflessione,  per iniziare a percorrerle uscendo dai vicoli ciechi del “dato per scontato”.

Nominiamo in forma interrogativa le immagini da cui siamo partiti pensando di rappresentare il lavoro educativo con le famiglie, perché ci apprestiamo ad esplorarle, decostruirle, metterle in discussione, osservarne i chiaroscuri.

  • Un sub che si cala nei fondali marini, ad esplorare mondi diversi dal suo ?

  • Una grande casa al centro di una città, con dentro “il mondo” ?

  • ’altalena a due ?

  • Una maglia lavorata a più colori che nasce dall’intreccio di due gomitoli ?

  • Soggetti in relazioni bidirezionali e connotati da aspetti visibili e risvolti nascosti?

I nostri disegni parlano di mondi diversi, giusta distanza, questione di equilibri, presa in carico, scambio, rischio che si diventi una cosa sola, relazioni affettive, incomunicabilità, rispetto.

Stiamo parlando almeno di due persone, di due mondi, di due storie…l’educatore da una parte e il minore e la famiglia che l’educatore incontra dall’altra.

In alcune rappresentazioni il mondo dell’educatore si sovrappone al mondo della famiglia; in altre i due mondi appaiono separati, inaccessibili l’uno all’altro. Sembrano quasi non interagire. Cosa può significare?

In alcune immagini c’è un prodotto finale,  l’esito del lavoro educativo, del progetto, delle sue azioni, definito e chiaro, in altre il prodotto finale è meno delineato. Che cos’è questo prodotto? Emerge una questione legata all’equilibrio in relazione alla vicinanza/distanza tra questi mondi: cosa ci sta dietro? Che tipo di scambio si realizza?

 

FUOR DI METAFORA. La complessità del lavoro educativo con le famiglie

Le molte domande che abbiamo posto dicono della complessità irriducibile del lavoro educativo con le famiglie.

Essendo la famiglia un sistema (pre) esistente e vivo, al quale ci avviciniamo con cautela, rispetto, delicatezza, il lavoro educativo domiciliare può essere interpretato come  dispositivo pedagogico nel quale noi, come professionisti, siamo e diventiamo parte attiva.

Nella famiglia l’educazione si fa. Per definizione, potremmo dire.

Si fa l’educazione naturale, l’educazione informale, si fa l’educazione familiare. Si fa la cura educativa, l’educazione affettiva e sentimentale. Ma anche quella culturale.

Si fa anche la dis-educazione, si fa la contro-educazione, si fa l’abbandono, la trascuratezza, l’incuria. Si fa il disagio educativo.

Nella famiglia che incontriamo per professione vediamo e troviamo il bisogno educativo.

Noi, professionisti dell’educazione, introduciamo elementi di intenzionalità e professionalità. Ma non solo. Come in ogni dispositivo pedagogico, immettiamo molto altro. Il dispositivo pedagogico è stato definito come “un insieme strutturato, e solo parzialmente visibile, di norme, oggetti, rituali, fantasmi, proiezioni, tecniche, metodologie, prescrizioni, soggetti; il dispositivo si sostanzia dunque sia nella rete che si stabilisce tra elementi eterogenei, sia nella natura del legame tra gli elementi, sia nella funzione strategica cui tale insieme risponde, sia infine nella reciproca interazione funzionale tra gli elementi stessi. Il dispositivo pedagogico non è il punto di vista dell’educatore: quest’ultimo è parte del dispositivo stesso anche quando non se ne rende conto”. (1) 

E’ immediatamente percepibile l’estrema complessità di questo dispositivo.

Nel lavoro educativo e consulenziale con le famiglie l’esperienza personale di famiglia (della propria), di genitorialità e di cura, dell’essere figli, è anzitutto inevitabilmente e immediatamente evocata.

“L’esercizio della professione, e in genere il lavoro, si svolge continuamente nell’intreccio tra un piano di realtà, un piano immaginario e un livello ancorato ai propri modelli familiari. E’ sempre attivo il transfert relazionale e pedagogico, in base al quale ognuno di noi reca nel proprio lavoro in generale, e certo in quello formativo, nel modo particolare di esercitarlo, il portato della propria storia familiare, quindi della propria storia di formazione”. (2)

 

IL PUNTO DI PARTENZA. Sguardo, posizione e postura.

Quando inizia a lavorare con una famiglia, l’educatore entra in uno spazio e in un tempo multi-definiti. Entra con un bagaglio fatto di un ruolo, di un mandato, di aspettative, di obiettivi, di idee. Ma, prima di tutto, entra con se stesso. Prima di qualunque altra cosa, l’incontro che l’educatore propone ad una famiglia che apre la soglia di casa per un intervento educativo è l’incontro con il proprio corpo, con la propria concretezza.  Si può tenere fuori tutto e tutti (sospendere giudizi, aspettative, obiettivi), ma non si può tenere fuori il proprio corpo. Ciò implica per l’educatore una fatica ma anche una possibilità. La fatica è quella di cercare di mantenere alta la consapevolezza e l’autoriflessione su dove e su come è collocato (posizione e postura); la possibilità è quella di utilizzare ciò come prezioso strumento di conoscenza.

Il primo atto che l’educatore compie individualmente consiste nel varcare la porta di casa, la “soglia del privato”: questo dà l’avvio alla relazione con l’Altro o la riprende se l’intervento è già in atto, come nella testimonianza che abbiamo tratto dal testo “I Servizi Domiciliari. Raccontare e raccontarsi” a cura di Beatrice Longoni:

“… la bici corre dentro il Parco Lambro, pedalo costeggiando il fiume, lasciando indietro i pensieri. Ho ancora 10 minuti, il tempo di mettere a fuoco alcune considerazioni sulla volta passata, su quello che si farà oggi, sul periodo. Ho addirittura il tempo per una sigaretta.

Sono sulla via, la casa è in fondo al cortile, parcheggio la bici legandola con la catena, passa il vicino di casa che mi saluta, due chiacchiere citofono.

La porta.. come due anni fa … << è aperto!>> <<No, devi ancora aprire!>>: come due anni fa, uguale. La porta si apre, il cane mi si fa incontro. Giovanni con il telefonino che gioca sul divano, la tv accesa, la serranda abbassata anche se fuori c’è il sole. Allora …” (3)

L’educatore si avvicina con il suo sguardo e trova lo sguardo dell’altro. L’apertura della porta sancisce l’incontro fra due mondi differenti.

Ci piace definire la vista come qualcosa che non ha nulla di fisso ed immobile, ma che ci permette invece di guardare in movimento il mondo che continuamente si muove e continuamente cambia. Allo stesso modo anche la postura di chi educa è una postura che vogliamo definire dinamica, fatta quindi di movimento, di cambiamento, di possibilità. Una postura sveglia e vigile, attenta.

Potremmo dire che il nostro modo di guardare le cose dipende dalle nostre azioni: i processi di percezione e di conoscenza del mondo dipendono da quello che noi facciamo nel mondo, cioè dalle azioni specifiche che esercitiamo sugli oggetti che incontriamo. L’idea che ci facciamo degli altri e di noi stessi è legata alle azioni comunicative nei contesti. Tutti i soggetti coinvolti contribuiscono a definire il senso di quell’azione e la percezione di quell’azione che cambia ad ogni passaggio. In questo senso lavorare con la famiglia richiede una consapevolezza epistemologica, un atteggiamento interrogante nei confronti dei presupposti che guidano il lavoro educativo.

Nella nostra riflessione ci siamo spinti oltre, domandandoci se la metafora dello sguardo non fosse limitante e parziale nel rappresentare il processo di conoscenza della famiglia, un processo che, più da vicino, coinvolge, oltre alla vista, tutti i sensi. Anche la metafora della scena educativa porta a pensare ad un qualcosa che si guarda, ma che colloca qualcuno nella posizione di spettatore ad una certa distanza.

Riteniamo che il processo di conoscenza e di osservazione con una famiglia sia quindi determinato da un coinvolgimento diretto e multisensoriale; ci sovviene l’immagine, anche se per certi versi estrema, di un reality fatto di sguardi multipli e penetranti, di contatto, di parole, di emozioni. Non è il caos: lo sguardo, così come tutti i sensi messi in campo dall’educatore, sono (dovrebbero essere) pedagogicamente orientati.

 

EMOZIONI. Il sapere dei sentimenti.

Se dunque la scena educativa è un processo nel quale tutti sono coinvolti, non possiamo parlare di osservazione oggettiva dei dati ma, piuttosto, di qualcosa di più vicino ad una partecipazione autentica.

Per quanto si possano pensare difese, antidoti e distanze, le emozioni, che lo si voglia o meno, sono sempre in circolo.

Come afferma Tramma “nella relazione educativa non si può non essere emotivamente coinvolti, in quanto le condizioni strutturali stesse (condivisione di spazi, tempi, attività, ecc.) determinano il coinvolgimento.” (4) L’unico modo, secondo Bertolini, per introdursi in un’autentica esperienza educativa è proprio il coinvolgimento diretto e personale. (5) “Il lavoro educativo è quindi un lavoro di ricerca di significati e ascolto delle emozioni […] che sono il profondo motore del nostro pensare, sentire e agire”.. (2)

Che cosa ce ne facciamo allora di questo nucleo emotivo e affettivo? Va in tutti i modi limitato, posto a distanza ed eliminato o c’è la possibilità, e forse anche la necessità, di ricomprenderlo da un altro punto di vista?

Lavorare con le emozioni non vuol dire solo ascoltarle ma significa percepirle, comprenderle e interpretarle in un costante processo di riflessione che interessa non solo l’altro, ma anche se stessi e la propria storia, in interazione con quella dell’altro. E’ un lavoro faticoso, impegnativo, che non si conclude mai, ma che può essere generativo e fonte di ricchezza: questo è il guadagno nell’allearsi con le proprie emozioni. Il riconoscimento e l’elaborazione delle emozioni consente la personalizzazione del proprio lavoro, un elemento fondamentale nei termini di autenticità ed efficacia, permettendo di effettuare una migliore lettura e comprensione delle situazioni partendo da se stessi.

In realtà “non si tratta di scegliere il coinvolgimento o il distacco, ma di imparare a praticarli entrambi contemporaneamente”. (6)

E poi esistono le emozioni sgradevoli, quelle che ci turbano, o ci inquietano, che tendono a offuscare lo sguardo, paralizzare il corpo, condizionare i sentimenti. Riconoscere il valore della “dissonanza”, come la nomina Marianella Sclavi (6), l’emozione non piacevole,  diventa il segnale di qualcosa di importante che sta accadendo nella relazione, nell’incontro tra mondi.

 

IL CAMPO BASE. Possibili ancoraggi pedagogici.

Nel proseguire il nostro lavoro di ricerca e riflessione, ci siamo fatti condurre da una ulteriore immagine: le grandi conquiste di alpinisti ed esploratori sono sempre coordinate e sostenute da un campo base.

Da wikipedia: “il campo base è il campo principale costituito da una o più tende di una spedizione alpinistica, utilizzato come punto di appoggio e di partenza per la scalata di una montagna. Viene allestito in luoghi considerati sicuri e attrezzato con piccoli edifici, tende, viveri e generi di conforto. Gli alpinisti possono sostare piuttosto comodamente o rifugiarsi in caso di condizioni avverse.” (7)

Abbiamo scelto questa immagine per sperimentarci nella costruzione dell’equipaggiamento pedagogico sufficiente e necessario nel lavoro educativo con le famiglie.

Intendiamo il campo base come quell’apparato costituito da competenze, vissuti, confronto, co-costruzione fra colleghi, cornice teorica di riferimento, strutturazione del pensiero, tutti elementi che dialogano tra loro e interagiscono.

Come se nel lavoro educativo ci fosse sempre la sovrapposizione di più spazi/piani:

  • un primo spazio: la scena operativa;

  • un secondo spazio: la ricerca interrogante;

  • un terzo spazio: il dispositivo pedagogico di secondo livello.

Il nostro lavoro di riflessione ha fatto emergere una possibile configurazione di campo base pedagogico.

La formazione

La formazione accademica e professionale è il nostro bagaglio di conoscenze e rappresenta una fonte di sicurezza. Come possiamo utilizzarla affinché sia risorsa per un incontro autentico e non rischi di funzionare da scudo dietro cui nascondersi? Come la formazione accademica può diventare apertura di sguardi?

Il ruolo

Si parte sempre da un mandato, da una cornice istituzionale, che orientano ruolo e identità dell’educatore. Ma nell’esperienza quotidiana “chi è l’educatore per questa famiglia? (aspettative, emozioni, affetti, legame, risposte…)

La consapevolezza

Il pensiero e l’azione educativa in una famiglia non sono mai neutri. Le tracce dei nostri personali percorsi educativi e di formazione (persone significative, eventi, contesti) impattano sul nostro modo di agire e progettare. I nostri modelli di uomo/persona (morale, etico, riabilitativo, salvifico…) influenzano le pratiche educative. Come esercitare continuamente la consapevolezza e come utilizzare intenzionalmente le nostre storie?

La co-costruzione del lavoro

L’autoriflessività permette, grazie alla condivisione con i colleghi e con gli altri interlocutori professionali, un ampliamento dello sguardo, una moltiplicazione dei punti di vista, che permette a chi sta lavorando su di sé di poter vedere quello che gli accade in modo più consapevole e ricco. Ciò significa predisporre strumenti pedagogici, “creare luoghi e pratiche per la concertazione: luoghi in cui si può stare insieme, fare ricerca insieme, raccontarsi i propri pregiudizi senza pudori, timori.” (8)

“Diventiamo riflessivi quando cominciamo ad essere curiosi e a chiederci <<>Ma quale è la mia idea? Cosa faccio concretamente, cosa penso? Il mio fare e il mio pensare sono coerenti? O forse c’è una dis-connessione tra quello che faccio (il corpo) e quello che penso (la mente)?>>. In questo modo stiamo facendo della pedagogia, o meglio, dell’epistemologia pedagogica.” (8)

 

Ricordiamo che si tratta, appunto, di una nostra delineazione di campo base, nata dal confronto e dal lavoro di gruppo, consapevoli della sua limitatezza e precarietà. Ma, del resto, ogni campo base è per sua definizione in qualche modo limitato e precario, e costretto a fare i conti con il tempo, le risorse, i limiti e i vincoli interni ed esterni. Compito fondamentale di ciascun operatore di secondo livello che si trova a lavorare in servizi per le famiglie come quelli da cui è partita la nostra riflessione è quindi, a nostro avviso, l’allestimento e la cura di un campo base per gli educatori del suo servizio, indipendentemente dalla forma che esso assumerà. 

 

____________________________

(1) Gatti I., (2013), Dispersione scolastica, bullismo, disagio giovanile. In  Formazione&Lavoro – numero monografico. 

(2) Riva, M.G. (2004), Il lavoro pedagogico come ricerca dei significati e ascolto delle emozioni. Guerini e associati, Milano.

(3) Longoni B. (a cura di), (2013), I servizi domiciliari. Raccontare e Raccontarsi. Maggiori Editore.

(4) Santerini M. (1998), in Tramma S. (2003), L’educatore imperfetto. Senso e complessità del lavoro educativo. Carocci Faber, Roma.

(5) Bertolini P.; Dallari M. (1988), L’eros in educazione, considerazioni pedagogiche. In Pedagogia al limite, La Nuova Italia, Firenze.

(6) Sclavi M. (2003), Arte di ascoltare e mondi possibili. Bruno Mondadori, Milano.

(7) https://it.wikipedia.org/wiki/Campo_base

(8) Formenti, L. (2011), Uno sguardo pedagogico. Prospettive di lavoro con bambini e madri in contesti di tutela. Animazione Sociale, 250 (Supplementi).

a cura di
Barbara Carcano

e Dario Ferrario

 coordinatori servizi educativi


Cogess, Coop. Soc.

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Con il contributo di

Michela Venturini,

Katia Lupo,

Lorena Palmieri,

Giulia Mauri,

Alice Brigatti,

Giulia Licinio

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