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Una riflessione pedagogica sul lavoro educativo a scuola tra assistenza ed educazione. La ricaduta sociale del lavoro educativo

Workshop condotto da: Monica Daturi e Patrizia Sordi, Cooperativa Sociale CoEsa

Autori del testo: Sabrina Brucoli, Maria Francesca Caniglia, Stefano Joly, Federica Marelli, Roberto Perillo, Irene Pozzi, Martina Tumeo

 

1. Introduzione: tra assistenza ed educazione

In questo articolo uniamo menti culturali che si sono formate a partire dalle stesse teorie, ma che ognuno di noi ha assimilato e fatto proprie in modo diverso. L’obiettivo è di compiere un processo di riflessione che possa essere informativo non solo per i nostri colleghi ma soprattutto con chi si interfaccia con la nostra professione ed anche con l’intero mondo circostante. Purtroppo l’uomo ha il brutto vizio di assimilare tutto in un grande sinonimo. A chi di voi non è mai successo, nella propria esperienza educativa, di essere chiamato animatore, operatore, babysitter ecc… ed essendoci ritrovati in gruppo sulla stessa opinione raccogliamo qui delle riflessioni provando a spiegare cos’è il lavoro educativo e perché si distingue da categorie come l’animatore o l’operatore assistenziale. Partendo dall’etimologia della parola educare [dal lat. educare, intens. di educÄ•r «trarre fuori, allevare», comp. di e- e ducÄ•re «trarre, condurre»] (io èduco, tu èduchi, ecc.; ant. o poet. edùco, ecc.)[1] non è l'insegnamento che forgia e foggia, di sapore ottocentesco: l'educazione trae dalla persona ciò che ha da sviluppare di autentico, di proprio. L'idea di una persona educata ci fa venire in mente una persona compìta e posata che sa stare a tavola in osservanza dei galatei, che nelle discussioni asseconda e puntualizza senza mai scomporsi né contrariare nessuno, che sa il suo posto e che lo mantiene. Più propriamente, l'educato è chi conosce il valore delle cose nella propria vita, chi è in grado di esprimersi nel riguardo di questo valore - non secondo leggi esterne imposte, ma secondo leggi morali e culturali che con l'educazione hanno iniziato a respirare scaturendo dal profondo della persona, espressioni del bambino che maturano conoscendo il mondo, espressioni dell'adolescente che inizia a fare i conti con sé stesso e con gli altri, espressioni dell'uomo capace di apprendere ed asserire. Chi educa in qualche modo si prende la responsabilità di condurre il soggetto in un percorso di autonomia che non evince da poche complicanze, anzi: nel momento in cui si attiva il processo della cura colui che si prende carico del soggetto e quest’ultimo entrano in relazione. Il soggetto pensante, in questo caso l’educatore deve essere cosciente del fatto che non può instaurare un processo relazionale di dipendenza da se stesso, né tanto meno fungere da bugiardino con le istruzioni sul “come vivere”. L’educando è un soggetto debole, che necessita di un rinforzo cognitivo e psicologico che può ottenere per mezzo non dell’educatore in quanto persona bensì per mezzo degli strumenti e dei mezzi che l’educatore, in quanto professionista, sa fornirgli. Resta, comunque, aperta la questione: quanta parte dell'educatore in quanto persona entra nella relazione educativa? Come quest’ultima dialoga con il professionista competente nell'uso di strumenti adeguati a quella interazione?  Come di consueto nella nostra professione, lasciamo così la domanda come spunto di riflessione.

Restando sulla stessa linea assistere [dal lat. assistÄ•re, comp. di ad- e sistÄ•re, propr. «stare accanto»] (pass. rem. assistéi o assistètti, ecc.)[2], lo stesso significato etimologico implica un sostare di fianco ad una persona e occuparsi di lei affinché stia bene.  Esiste dunque una grande difformità di indirizzi: nel settore dell’assistenza si privilegiano di norma lo sviluppo del bambino, il benessere, il gioco e la sicurezza emotiva, mentre in quello educativo il curriculum si focalizza sullo studente e sul suo apprendimento. Da un punto di vista pedagogico educazione e assistenza non devono separarsi: un educatore deve essere capace di educare e quindi di assistere. Nella prima fase di lavoro della presa in carico di un utente, di qualunque genere esso sia, è necessario che l’educatore instauri una relazione con l’educando di massima fiducia, e imposti un setting di lavoro tale per cui sarà possibile muoversi senza temere di perdere il soggetto o peggio, il macro obiettivo. Semplificare i problemi non è proprio compito dell’educatore, il quale deve avere delle capacità di lettura e creare un setting che possa fruttare in termini di obiettivi di crescita nei confronti dell’utente. Se l’educatore smaltisce questa competenza rimane ben poca cosa perché sarà stretta tra un’istanza di controllo che la riduce a disciplina e un’istanza di cura che la riporta all’assistenzialismo.

Negli anni si è proprio formata una tradizione tra l’educativo e l’assistenziale. È chiaro che, l’assistenza appartiene pervicacemente a tutte le procedure del campo sociale e si annida negli interventi sanitari, socio-sanitari, sociali senza tralasciare quelli socio-educativi: ogni gesto compiuto viene inserito in termini di bisogno. Su questi termini si valuta il carico assistenziale, rispetto ai bisogni di cui un utente è portatore. La documentazione porta una traccia quasi invisibile, ma estremamente indicativa di come agisce questa potente unità di misura che è il carico assistenziale. Da questo punto di vista, la tradizione tra educazione e assistenza nell’erodere il senso del nostro sapere ci rende come invisibili[3]. Quindi, per concludere, coloro che si occupano di assistenza si limitano al benessere della persona, coloro che si occupano di educazione non solo hanno come obiettivo il benestare della persona, ma come ultimo gradino mirano all’autonomia del soggetto. Un educatore può ritenersi soddisfatto nel momento in cui non è più necessaria la sua presenza di fianco all’utente. E che la separazione metaforica tra i due soggetti coinvolti non provoca traumi a nessuno dei due.

 

2. Una riflessione legislativa per ritrovare l’educazione

Per poter comprendere meglio la differenza tra educare ed assistere, in particolare nel mondo della scuola, è importante porgere lo sguardo all’evoluzione legislativa che, dal 1992 ad oggi, è sempre più attenta alla persona con disabilità. Nel 1992 il Parlamento italiano ha approvato la Legge quadro n. 104 e nel 2009 ha reso esecutiva la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità. È interessante osservare come vengano modificati, negli anni, i termini: non si parla più di “handicappato” ma di “persona con disabilità”; da “integrazione” si passa alla parola “inclusione”. Si definisce “handicap” svantaggio rappresentato da minorazioni o difetti, più o meno gravi, di tipo intellettivo, motorio (spasticità, paraplegie, ecc.) o sensoriale (minorazioni della vista, dell’udito, ecc.), che rendono difficile a una persona il normale inserimento nella vita sociale in alcune o tutte le sue manifestazioni (familiari, scolastiche, professionali, ecc.)[4]; l’anteporre all’aggettivo disabile il nome persona, provoca un cambiamento sostanziale nel come consideriamo lo svantaggio in quanto mettiamo in evidenza che il disabile è prima di tutto una persona: si riconosce che “la disabilità non è la caratteristica di un individuo, ma piuttosto una complessa interazione di condizioni, molte delle quali sono create dall’ambiente sociale”[5]. In questo modo emerge come sia la società a determinare la disabilità: ognuno di noi è disabile, ovvero diversamente abile in qualche cosa, ed è la società che determina il disagio derivato dal non riuscire a fare ciò che desideriamo. La società dovrebbe garantire a tutti, nella propria unicità, gli stessi diritti e in questo, l’Italia, a livello legislativo è uno dei Paesi del mondo più avanzati. Grazie all’approvazione e all’applicazione della Convenzione delle Nazioni Unite sui Diritti delle Persone con Disabilità, si è passati al concetto di inclusione. L’integrazione si focalizza sul dare “opportunità di vita autonoma e di partecipazione del disabile, un’integrazione che non si può limitare ad un periodo della vita con bisogni speciali, ma che deve comprendere la scuola, il mondo del lavoro, il tempo libero”[6], avendo quindi come idea fondante che la partecipazione a una vita comunitaria “normale”,  produca un cambiamento importante sia per il disabili sia per la società; in particolare a scuola, l’essere inseriti in classe, insieme a tutti gli altri, produce un cambiamento positivo per tutti. La scuola, e in generale la società, deve riconoscere l’individuo nella sua unicità e dare ad ognuno i mezzi e le risorse necessarie per promuovere le sue potenzialità diventando così luogo di partecipazione attiva alla comunità. Con il concetto di inclusione si mette invece l’accento sui diritti delle persone con disabilità e quindi la società si deve impegnare, deve assumersi la responsabilità, affinché tutti possano partecipare attivamente alla vita sociale, a prescindere dalla propria unicità. La scuola deve dotarsi di personalità professionali che possano adempiere a questi compiti, infatti integrazione e inclusione sono strettamente correlati essendo l’uno il presupposto per la realizzazione dell’altro.  È importante che la scuola sia una scuola per tutti, che abbia delle figure professionali adatte ad accogliere tutti in modo tale da far emergere le potenzialità e trasformarle in atto. Ciò che è evidente, in molte realtà comunali, è che la professionalità dell’educatore è determinata dalla voce di Assistente Educativo che limita notevolmente il campo d’azione dell’educatore essendo prima che educatore, assistente. L’educatore, però, non è un semplice assistente poiché ha prima di tutto una formazione che spesso non viene tenuta in considerazione ma che gli permette di avere intenzionalità educativa, di acquisire “competenze relazionali come la percezione di sé e dell’altro, la sensibilità e le capacità comunicative”, competenze metodologiche-didattiche come “l’osservazione e la valutazione delle abilità e dei deficit presenti nell’alunno […] per partecipare all’elaborazione del profilo di funzionamento dell’allievo”[7] e competenze metodologico-didattiche che “si acquisiscono, anche attraverso esercitazioni pratiche, utilizzando alcune tra le più note procedure e strategie didattiche per la facilitazione del processo di insegnamento-apprendimento quali la  Task Analysis, il Prompting, il Modeling […]”[8].Un’altra caratteristica dell’educatore professionale è la capacità di essere meta-riflessivo ovvero riuscire a ragionare e riflettere su sé stesso e sulle sue strategie educative, così da avere una consapevolezza e un’intenzionalità educativa nell’allestimento della scena educativa. La forza dell’educatore e del suo gesto educativo è quella di traghettare il bambino con disabilità dalla scuola ad un possibile luogo dell’autonomia, inserendo questo processo nel suo progetto di vita. La famiglia, in questo passaggio, assume un’importanza rilevante: la condivisione del Progetto Educativo Individualizzato (PEI) costruito con la partecipazione dei docenti, dell’educatore, dell’alunno stesso secondo le sue possibilità, costruisce un ponte tra scuola, famiglia e società.

L’educatore quindi all’interno della rete aiuta la persona a inserirsi nella società poiché attraverso l’educazione scolastica si scoprono, insieme, gli strumenti utili per essere parte del contesto sociale e finalmente riuscire ad attuare le disposizioni del dettato legislativo che prende la forma di un insieme di prassi capaci di immaginare e di palesare una trasformazione culturale possibile. Tutti i progressi scolastici non sono fini a stessi; tutti gli alunni, frequentando la scuola, acquisiscono le basi, i mezzi per diventare adulti e il lavoro educativo deve essere finalizzato a fornire questi strumenti.

 Il lavoro educativo è un lavoro paziente, a lungo termine, che lascia tracce che potranno mostrarsi anche in là nel tempo. È necessario che gli educatori, le famiglie, i membri tutti della società civile siano consapevoli che anche un piccolo miglioramento è una grande conquista per il bambino con disabilità perché è un piccolo tassello verso la possibile autonomia e l’essere protagonista della propria vita.

Il mondo educativo è un mondo complesso, di cui non si possono conoscere gli esiti a priori e, nel caso in cui essi non siano quelli auspicati, è importante, per l’educatore, educare al rispetto della persona in quanto tale poiché ognuno ha delle diverse abilità.

È necessario educare all’uguaglianza in quanto tutti possiedono delle fragilità che necessitano rispetto e attenzione, così si rende la comunità sociale, più civile e più facile da abitare per tutti.

 

3. Riccardo Massa: un pensiero estremamente attuale nel fare educazione a scuola

Educare o istruire: un’opposizione, un’analogia, un’alleanza. Un sistema. Soprattutto un libro, un “piccolo” grande libro che ancora oggi, dopo trent’anni dalla sua prima pubblicazione, è sempre in grado di suscitare forti emozioni.

In questo scritto si vogliono riprendere brevemente le fila del pensiero di Riccardo Massa, proprio a partire da questo suo scritto e da alcuni punti chiave che sembrano estremamente significativi e da “recuperare” per educare e non solo istruire a scuola oggi.

Massa ci immerge nel suo pensiero proprio partendo dal titolo del primo capitolo del libro che stiamo analizzando: Educazione e vita. Educazione è vita, si ritiene di poter dire, riflette la vita, è ed esiste nel flusso della vita stessa, ma al contempo se ne distanzia, non le corrisponde appieno, è qualcosa di qualitativamente simile ma diverso. Per usare le parole dell’autore: l’educazione raddoppia la vita, come in un gioco di specchi, e crea una specifica regione ontologica (chiamata Mondo II, in analogia al Mondo I, che corrisponde alla vita diffusa).

“L’educazione viene ad istituire una regione intermedia e meditativa, di contatto e di passaggio tra mondo esterno e vita soggettiva, richieste cognitive e bisogni affettivi, cose reali ed immaginario infantile, attraverso modalità di sostituzione simbolica e di sperimentazione operativa.”[9]

Questa regione intermedia e meditativa è presente a scuola oggi? Se sì, come è strutturata? Se no, ha senso introdurla? E come? Queste sono le domande che ci fanno da guida quando parliamo di educazione e scuola – e non solo nei primi ordini della stessa, ma in tutto il sistema scolastico, ai diversi livelli.

“La domanda se la scuola debba istruire o educare è corretta e legittima soltanto qualora venga intesa in ordine alla priorità di obiettivi formativi determinati, non alla possibilità di scindere o identificare i processi dell’e-ducere e dell’in-struere”.[10]

Seguendo questo pensiero, dunque, non dovrebbe esserci una separazione netta fra educare e istruire, dando di volta in volta priorità a una componente o all’altra; entrambe le dimensioni dovrebbero essere ricondotte in un progetto di vita della persona a scuola, la quale dovrebbe poter entrare nel mondo scolastico con tutta sé stessa, non solo in quanto alunno da istruire, o da educare[11], ma come essere umano, che nella scuola trova le occasioni per sviluppare ciò che ha di più autentico, di proprio, di potenziale e realizzabile.

La società attuale fatica a ricomprendere le diverse qualità di una persona in un unico insieme, in un’unica forma, sempre in divenire ma sempre presente a sé stessa. Quella che l’autrice Sclavi[12] chiama la “retorica del controllo”, cioè la tendenza oggi culturalmente dominante all’iper-specializzazione, alla frammentazione e separazione, all’attribuzione di etichette e all’identificazione netta di ogni più piccolo sintomo,

“non dovrebbe implicare necessariamente il misconoscimento della struttura educazionale di qualunque intervento formativo, pena l’inefficacia di quest’ultimo, e la rimozione di esigenze formative più articolate che solo la scuola può e deve favorire.”[13]

Ogni intervento formativo, dunque anche scolastico, ha una sua intrinseca struttura educazionale; quindi anche la scuola, con i suoi linguaggi, i suoi tempi, i modi in cui struttura le attività e l’apprendimento, crea educazione.

Proseguendo ancora attraverso il pensiero del grande pedagogista, è parere di chi scrive che ci si possa ispirare alla sua lezione anche per un altro aspetto fondamentale dell’educazione a scuola, la prima intesa appunto non come attività astratta e separata dalla vita, ma come vera e propria esperienza a tutto tondo[14]. Tale aspetto riguarda la materialità, il contatto con le cose concrete – gli oggetti (banchi, sedie, cartelloni, vestiti…), i giochi, i materiali diversi (legno, carta, stoffa, ferro…), ma anche i simboli, i tempi scanditi dalla campanella, i colori, i cibi e i profumi…Tutte queste dimensioni sono presenti a scuola e non possono essere ignorate. La loro semplice presenza in aula contribuisce a creare un certo tipo di educazione e non un altro, a dare una dimensione concreta e vitale all’evento formativo in corso, alla scena in cui prende forma l’educazione.

Alessandro Ferrante, ispirandosi sempre al pensiero di Massa, sostiene infatti che nel clima culturale attuale ci sia una tendenza dominante a considerare gli oggetti come del tutto inerti e marginali ai fini della progettazione di un intervento educativo. Ma gli stessi oggetti, esattamente come le persone, sono parte di una rete, un vero e proprio network materiale, i cui componenti, che siano essi materiali o immateriali, sono degli attanti, cioè hanno la capacità intrinseca di agire sulla scena formativa.[15] Crediamo sia fondamentale sviluppare questo filone di pensiero per re-introdurre nella scuola il contatto con il mondo esistente, fatto di corpi, oggetti, colori, profumi, sensazioni tattili, laddove a volte prevale una fiducia acritica e un utilizzo smodato del virtuale e delle tecnologie informatiche.

Il quarto capitolo di Educare o istruire? s’intitola Educazione e avventura. Qual è il legame fra scuola e avventura? Secondo l’autore quest’ultima

“può essere considerata un oggetto pedagogico nonostante la lontananza apparente dall’esperienza educativa. […] Avventura e pedagogia vorrebbe essere un binomio provocatorio. Cosa c’è di meno pedagogico dell’avventura? L’educazione […] sembra essere di primo acchito agli antipodi del carattere di eccitazione esistenziale, di straordinarietà e di esotismo, di istintualità e di virilità che qualificano l’avventura come esperienza umana.”[16]

L’avventura, prosegue poi l’autore, è comunque un bisogno adolescenziale, strettamente correlata con il gioco infantile; è un dato di formazione dell’individuo[17]. Eppure la scuola, per come è strutturata oggi, non si propone come campo di sperimentazione avventuroso, non pone sfide esistenziali rilevanti ai suoi studenti – concepiti appunto in quanto studenti, non in quanto soggetti - ma si limita a veicolare un sapere e un apprendimento tutto sommato sterili, già pronti, già “masticati” da altri, preconfezionati e proposti tali e quali.[18] In tutto questo entra in campo la dimensione motivazionale e del desiderio, entrambi temi portanti dell’esperienza pedagogica, che Massa porta abilmente alla luce in altri suoi scritti. Come possiamo aspettarci che gli studenti siano attratti dalla scuola, dal sapere, che abbiano in sé stessi la voglia e il desiderio di apprendere, se noi stessi come educatori non sappiamo trasmettere loro tale desiderio?

“C’è anche la possibilità di riconoscere l’educazione come processo che si nutre di motivazioni, di desideri, di passioni, che chiedono di essere pensati ed elaborati come fattori essenziali di progettualità. Un lavoro di cuore, come allusione anatomica alla sede delle connessioni sentimentali, al supporto corporale di quel desiderio inteso come cardine dei processi di soggettivazione.”[19]

 

L’educazione è vita, avventura, materialità, motivazione e desiderio. Desiderare che l’altro, in quanto

soggetto, desideri: questo è uno dei tratti fondanti del fare educazione a scuola oggi.

 

4. Educazione, istruzione, formazione: cosa fa la scuola e cosa fa l’educatore?

Per esplorare la figura dell’educatore nel contesto scolastico e il senso che questa presenza può avere, si necessita di una premessa introduttiva che circoscriva brevemente il significato della scuola come istituzione sociale permettendo poi di comprendere come l’educatore, quale artefice dei processi educativi, possa esprimersi in esso con un contributo significativo. In realtà questo aspetto apre ad ulteriori interrogativi, specialmente in riferimento alla realtà scolastica del territorio nazionale, là dove figure educative sono presenti, se previste dalle singole istituzioni, nell’ambito delle scuole primarie e secondarie, ma per queste ultime, con un relativo decremento in termini numerici. In situazioni molto complesse ed in presenza di diagnosi molto gravi, spesso i percorsi scolastici si interrompono per l’aprirsi di altre strade ad altri percorsi istituzionali. E non si può fare a meno di chiedersi: cosa può significare questo “dis-investimento” educativo nelle scuole secondarie?

È innegabile che quest’ultimo aspetto proprio dal punto di vista pedagogico faccia riflettere, in riferimento all’importanza cruciale dello sviluppo sia psicofisico che socio-culturale di giovani ed adolescenti che trarrebbero senza dubbio beneficio dal contatto con figure esperte proprio per la capacità di quest’ultime di prendersi cura dei processi e dei percorsi di vita dell’Altro. E quindi ci si chiede se esista una differenza tra i mandati istituzionali tra scuole primarie e secondarie che possa giustificare questo tipo di situazione.

Ma quale è il rapporto esistente tra educazione, istruzione e formazione? E dove si potrebbe collocare la figura educativa in questi livelli che apparentemente sembrano distanti tra loro?

Rifacendoci al discorso etimologico, come già accennato, si prende in analisi quanto scritto da Lucia Zannini in La tutorship nella formazione degli adulti, che dice:

“Educazione etimologicamente vuol dire ex-ducere, ossia tirar fuori, condurre oltre e altrove, come anche condurre in disparte, sviare, traviare[20] qualcuno. In questa accezione il lavoro educativo si concentra non tanto sul 'mettere dentro' al discente una serie di conoscenze e capacità, ma piuttosto nello sviluppare comportamenti e consapevolezze che si radicano sul bagaglio di esperienze, anche affettive, di cui l’educando è portatore. Paradossalmente. Però, 'educazione' ha le sue radici anche nel termine educare, ovvero nell’attività di allevamento, nutrizione, ossia 'mettere dentro', che caratterizzano la relazione dell’individuo con le figure di riferimento nelle prime fasi della sua esistenza. In questo senso, l’educazione si avvicina all’accezione di istruzione, che deriva dal latino in-struere, che significa 'costruire', impilare, ma anche 'mettere dentro' in un oggetto (o in un soggetto!) qualcosa, ossia, in ambito pedagogico, trasferire una serie di nozioni e capacità”.[21]

E prosegue:

“l’educazione […] è da intendersi come un’attività di cura finalizzata a una «strutturazione dell’identità del soggetto, per il quale presuppone il conseguimento di una condizione strutturalmente migliore». Il lavoro educativo, dunque, come un agire non solo e non tanto finalizzato a fornire informazioni o capacità, ma come un processo in cui il soggetto costruisce in modo attivo saperi e competenze a partire da sé e dalle sue esperienze, con il sostegno di un educatore che, attraverso uno stile maieutico, lo aiuta a costruire la sua identità e a diventare ciò che può e vuole essere.”[22]

Anche per quanto concerne la formazione l’etimologia ci viene in aiuto e ci permette di evidenziare un ulteriore possibile paradosso. Lucia Zannini scrive:

“[…] formare significa dare una forma, esattamente come fa lo scultore con una statua, il quale, attraverso determinate scelte, dà a un certo materiale una determinata forma. Il concetto di formazione ha a che fare con un movimento selettivo. Formare, dunque, come dare una forma prestabilita a qualcuno e, nel senso di plasmarlo, farlo divenire ciò che si è pensato, progettato, selezionato. Suona strano questo significato di formazione soprattutto a chi guarda a essa con uno sguardo autenticamente pedagogico, a partire dalla prospettiva cioè di chi intende l’educazione come l’allestimento di situazioni e condizioni che permettano l’emersione e quindi l’autodeterminazione del soggetto.”[23]

E prosegue:

“[…] è per questo che Edgar Morin ha scritto che il termine formazione, con le sue connotazioni di lavorazione e conformazione, ha il difetto di ignorare che la missione della didattica è quella di incoraggiare l’autodidattica, destando, suscitando, favorendo, l’autonomia dello spirito.”[24]

La stessa Zannini, nel tentativo di esplorare i possibili rapporti tra queste tre sfere di significato, si rifà al contributo dato da Riccardo Massa, che ha sostenuto, in realtà, che istruzione, educazione e formazione non sono processi tra loro nettamente distinti, non a caso, è stato detto che questi tre termini vengono spesso contrapposti surrettiziamente[25]. E scrive:

“Non si tratta, quindi, a nostro avviso, di escludere l’una o l’altra dal discorso pedagogico, quanto piuttosto di non ridurre la complessità del cambiamento nell’esistenza di un individuo soltanto a ciò che è stato intenzionalmente prefigurato (formazione) o rigidamente predefinito (istruzione).”[26]

L’attenzione all’autodeterminazione, all’autodidattica e all’autoformazione ricorda un passaggio altrettanto significativo de La cura educativa di Cristina Palmieri, in cui scrive:

“[…] non si può che pensare la formazione come qualcosa che ha a che fare con il 'prendere forma', il 'dare forma', l’'acquistare una forma'. 'Formazione' evoca al tempo stesso il 'formare' e il 'formarsi': l’essere formati da qualcuno attraverso azioni di coltivazione e cura, ma anche il 'formarsi da sé', l’autodeterminazione della propria forma indipendentemente da ogni interferenza ambientale; uno scenario che colloca l’'apprendere ad essere uomo' tra eteroformazione ed autoformazione […]”[27]

Queste frasi pongono in essere un’ulteriore interessante riflessione sul senso del processo educativo e formativo: educare per non educare, formare per non formare. Come nel film Marvel Avengers: Age of Ultron in cui Tony Stark (Iron Man) dice a Steve Rogers (Captain America) in un passaggio cruciale del film sia per la trama (momento in cui Ultron stava riuscendo nell’intento di disgregazione della squadra di eroi) sia dal punto di vista educativo:

“Non è per questo che combattiamo?! Per non combattere più e per poter tornare a casa?!”[28]

L’educazione come una battaglia, una battaglia che, se vinta, permetterà di smettere di combattere, l’educazione che se realizzata permetterà il tornare a casa perché in un senso altamente pedagogico ci sarà il passaggio del testimone dall’educatore all’educando che diventerà a tutti gli effetti protagonista e primo artefice del proprio percorso di vita, che sarà responsabile della propria educazione, formazione e magari divenire in un futuro egli stesso veicolo di processi educativi.

Ma come produrre una ricaduta sociale e culturale del senso della presenza educativa nelle scuole?

È proprio dopo aver esplicitato in realtà una non distinzione netta tra educazione, istruzione e formazione e dopo aver evidenziato la natura educativa dell’istituzione scolastica che è possibile comprendere l’importanza della figura educativa in questo contesto. È necessario però una ri-significazione del ruolo educativo nelle scuole e operare un cambiamento nel modo con il quale viene concepito il lavoro educativo, proprio perché non lo si debba pensare necessariamente in relazione all’utenza, o alla patologia di cui l’utenza stessa è caratterizzata. La progettazione educativa non riguarda solo la gestione degli aspetti problematici degli individui ma, prendendo spunto dalla psicologia umanistica di stampo rogersiano, dalla Consulenza di Processo di Edgar H. Schein, dalla Consulenza Pedagogica che hanno una matrice di tipo biopsicosociale (non ripropongono le chiavi di lettura del modello biomedico), si interessa della “persona nella sua globalità”, anche e soprattutto in relazione agli aspetti che non rientrano nel discorso patologico. Alla riproposizione dell’educazione in questo senso sembra prestarsi una concezione dell’educatore come tutor, non solo d’aula ma, come scrive Lucia Zannini, un tutor come guardiano, protettore, custode (in riferimento all’etimologia latina del termine) il tutor viene a essere concepito come un difensore della tensione verso la crescita, l’autonomia, il potenziamento di chi gli è affidato.[29]

5. Come è possibile trasmettere l’eventuale processo di cambiamento?

La figura dell’educatore è ancora oggi una figura incerta, liquida[30], forse perché il suo campo d’azione è ampio, lavora con tante tipologia d’utenza, e forse perché svolge un lavoro complesso che non produce qualcosa di finito e immediatamente visibile. “Ma è una debolezza essenziale e salutare, che rappresenta anche la sua (paradossale) intrinseca forza, se interpretata come una costante apertura di possibilità, una ricerca ininterrotta sul senso dell’agire educativo, una costante messa in discussione del proprio orizzonte di finalità, delle esperienze di vita, degli obiettivi, dell’universo dei soggetti ritenuti destinatari e/o co-costruttori dell’azione educativa.”[31]

Tuttavia il mondo sociale fatica ancora molto a riconoscere e legittimare l’educatore, e tanto più un contesto è radicato culturalmente e definito, come la scuola, tanto più è difficile comprendere e accettare un contributo “diverso” come quello offerto dall’educativa scolastica. Probabilmente tale incomprensione è riconducibile anche al fatto che la mente umana tende a categorizzare, senza i processi di categorizzazione non potremmo comprendere la nostra esperienza, dobbiamo dare un nome alle cose perché non sappiamo governare il disordine; quindi quando qualcosa è sconosciuta tendiamo a riportarla verso una categoria a noi nota per poterla apprendere: verosimilmente, se non è chiaro quale sia il lavoro dell’educatore all’interno della scuola, è possibile che venga identificato con mansioni già riscontrate o che siano comode per gli altri soggetti in campo.

In questo clima è complicato far emergere il vero senso del lavoro educativo, che non dovrebbe essere circoscritto all’assistenza di alunni portatori di disabilità, poiché l’educatore in quanto tale è potenziatore delle risorse di ogni individuo, facilitatore della socializzazione ed esperto della relazione, possiede uno sguardo pedagogico in grado di valutare e progettare il contesto, e questi sono solo alcuni tra gli elementi che dovrebbero indurre a considerare l’educatore scolastico come una risorsa per tutta la classe. L’educativa scolastica dovrebbe essere considerata come un sostegno alla vita scolastica di tutti gli alunni, una qualità aggiunta a questa istituzione che è essenziale per la formazione degli individui, sia didattica che personale, ma che sempre più deve far fronte alla complessità che caratterizza la società odierna.

Per permettere un tale cambiamento nell’immaginario sociale, bisognerebbe lavorare su fronti diversi contemporaneamente. Innanzitutto si deve partire dal piano legislativo, ovvero, attraverso la legge, regolamentare e dare valore al lavoro educativo. In questo senso qualche piccolo passo si sta muovendo: con la proposta di legge presentata dalla deputata Vanna Iori, nella quale si prevede l’obbligo della laurea per essere educatore si inizia a sostenere il pensiero che le professioni educative devono essere svolte da persone qualificate perché l’educazione è qualcosa di serio, complesso e che non può essere lasciato al caso. In piccola parte anche la Legge la Buona Scuola, imponendo a chi vuole entrare nel percorso di abilitazione all’insegnamento nelle scuole secondarie di primo e secondo grado il conseguimento di ventiquattro crediti universitari in settori formativi psico-antropo-pedagogici o nelle metodologie didattiche[32] , sta implicitamente affermando che, per lavorare nella scuola, bisogna essere preparati in campo educativo e non solo sulle proprie aree di competenza; in questo senso viene conferito un riconoscimento alla dimensione pedagogica, che anche se non riferendosi all’importanza fondamentale dell’educativa scolastica in senso stretto, mette le basi per poter lavorare in tale direzione.

L’altro livello su cui è necessario agire per ottenere un cambiamento sul piano sociale deve partire dall’interno: bisognerebbe “dare l’esempio” ovvero, invece che discutere del cambiamento attraverso libri, comizi, assemblee o cose di questo genere, entrare nella scuola e mostrare di cosa è capace e cosa qualifica l’educatore. Non si può pensare di indurre una trasformazione culturale senza esplicitare in modo concreto chi è l’educatore scolastico, e il modo migliore per farlo è farlo vedere in azione; solo così si può sperare che la complessità e l’importanza del lavoro educativo vengano apprezzate. Si potrebbe ipotizzare di stendere un progetto in cui, partendo da una classe sperimentale, si preveda la presenza dell’educatore scolastico che lavori non solo con i soggetti più disagiati da un punto di vista fisico, mentale o sociale, ma con tutto il gruppo classe, a sostegno dell’intervento educativo dell’insegnante, cooperando insieme per promuovere l’autonomia, la collaborazione e l’inclusione di tutti. 

Un’esperienza, per essere educativa, deve essere ripensata, bisogna riflettere su di essa affinché permei la parte più profonda del nostro essere e non si fermi alla superficie scivolando via. Partendo da questo presupposto è necessario progettare non solo un intervento innovativo, ma anche la sua rielaborazione al fine di rendere questa ipotetica sperimentazione il punto di partenza per un cambiamento nell’immaginario di più persone possibili fino a diventare “virale” e contagiare tutta la società. 

6. La progettazione e la valutazione nell’intervento scolastico a scuola

Due caratteristiche che deve possedere l’educatore, anche quello che opera nel mondo della scuola, sono la progettazione e la valutazione. Per progettazione si intende:

“un’attività cognitiva che sposta l’attenzione sulle competenze progettuali possedute dagli attori sociali (singoli, gruppi o organizzazioni) e viene definita come “attività di produzione di mondi possibili”, come “attività esplorativa e costruttiva volta alla ricerca e alla definizione di problemi”, come “indagine pratica”[33]. Questa definizione di progettazione, restituisce l’importanza che essa ha nella costruzione di un percorso di senso capace di immaginare “mondi possibili”, che quando si parla di disabilità, a mio avviso è la prospettiva alla quale auspicare. La progettazione e la valutazione nella scuola si concretizzano in strumenti concreti, che partono dall’osservazione, passano per la riflessione e si realizzano in azioni e sperimentazioni concrete che confluiscono nel Piano educativo individualizzato (PEI). Questo documento, dovrebbe essere scritto a più mani, da tutti gli attori che ruotano attorno alla figura del bambino con disabilità, dovrebbe essere frutto dello sguardo di insegnanti, insegnanti di sostegno, educatori, psicologi, logopedisti, ecc.;

Il ruolo della scuola è quello di costruire competenze e abilità utili a stare nel mondo; nel caso della disabilità si parla di “progetto di vita”, prospettiva che nasce grazie all’entrata in vigore della legge 104/92. Per la prima volta la centratura non è più sugli operatori o i servizi ma sulla persona, prendendo in considerazione tutto l’arco della vita e dei molteplici aspetti che la riguardano. Come visto nell’excursus legislativo precedente, la direzione da prendere è quella di una didattica che punta al raggiungimento della massima autonomia possibile, occorre pensare all’individuo nel tempo, essendo lungimiranti, nell’ottica dell’inclusione sociale.

Inclusione traduce il termine inglese “inclusion” (dal verbo to include), che significa “essere parte di qualcosa”, “sentirsi completamente accolti e avvolti”; al contrario di to exclude, che significa “escludere”, “espellere”. L’essere inclusi è un modo di vivere insieme, basato sulla convinzione che ogni individuo ha valore e appartiene alla comunità”[34]. Questa definizione ci riporta all’importanza che la scuola ha nell’essere la prima istituzione in cui i bambini possono sperimentare la diversità, imparando a conviverci, una “palestra” protetta. Le classi odierne sono dei vivai di diversità, in cui agiscono bambini con disabilità ma anche con altre difficoltà, basta pensare a tutti i DSA e a tutti quelli che vivono disagi familiari e sociali (BES), proprio per questo la scuola non può prescindere dall’andare verso una progettazione che sia sempre più personalizzata ed aderente ad ogni singolo attore, guardando alle caratteristiche di quell’alunno piuttosto che dell’altro, adattando i programmi non più ad un gruppo, ma al singolo studente e alle sue peculiarità.

7. Il progetto di vita del bambino con disabilità: quale ruolo ricopre la scuola?

Osservando la vita scolastica e le sue routine spesso ci si interroga entro ed oltre quale cornice insegnanti ed educatori possano muoversi. La cornice scolastica non è solo uno spazio in cui il bambino sperimenta delle esperienze e scopre o potenzia le sue abilità cognitive e di relazione, ma è uno spazio in cui viene elaborato e pensato per lui un progetto.

In particolare, per quanto concerne i bambini con disabilità i programmi e progetti che vengono creati sono individualizzati e specifici rispetto alle difficoltà che presentano. Prendendo visione di tali progetti ci si accorge di come questi abbiano l’obiettivo principale di far sì che il bambino acquisisca competenze sulla base di quelle che sono le sue specificità. L’autore Guasti affermava che:

“La competenza è la combinazione di diversi fattori tra i quali quelli che giocano il ruolo più importante di integrazione e di guida dell’azione, sono i processi intellettuali. Tale approccio introduce un concetto molto importante: quello secondo il quale la competenza non esiste in sé, ma deve sempre essere situata in rapporto ad un problema particolare e all’interno di un contesto specifico di riferimento.”[35]

Nel Decreto 22.08.2007 e D.M 9 27 gennaio 2010 emerge il regolamento sul nuovo obbligo di istruzione e certificazione delle competenze e si afferma che l’istruzione e la formazione iniziale offrano a tutti i giovani gli strumenti per sviluppare le competenze chiave ad un livello tale che li prepari per la vita adulta e costituisca la base per ulteriori occasioni di apprendimento. Sulla base di queste fonti è possibile far emergere alcune riflessioni pedagogiche di importanza fondamentale. La prima che è possibile sottolineare che la scuola, in quanto istituzione riconosciuta e luogo di apprendimenti, ha il compito principale di considerare e concentrarsi a fondo sulle particolarità ed unicità che il bambino presenta. Solo in questo modo è possibile eliminare quelle che sono le etichette di disabile, BES, DSA, ADHD e quante altre ne esistano. Eliminare l’ottica della diagnosi ed attenuare la responsabilità rispetto alla “cura” del problema, potrebbe far emergere un nuovo modo di progettare e guardare ogni bambino, perché ogni bambino avrebbe diritto di essere oggetto di attenzione e di essere protagonista di ogni azione che insegnanti ed operatori mettono in atto all’interno dell’ambiente scolastico. La scuola ha certo una forte responsabilità nei confronti della vita dei bambini e dei ragazzi, ed essa rappresenta il trampolino di lancio per la vita futura. Nell’art. 1.4 si prevede che il Progetto di Vita sia parte integrante del P.E.I., e consista nella supervisione della crescita personale e sociale dell'alunno con disabilità. Il suo fine principale è la realizzazione dell'innalzamento della qualità della vita dell'alunno con disabilità, anche attraverso la predisposizione di percorsi volti sia a sviluppare il senso di autoefficacia e sentimenti di autostima, sia a predisporre il conseguimento delle competenze necessarie a vivere in contesti di esperienza comuni. Parlare di progetto di vita, significa includere un intervento che vada oltre il periodo scolastico, aprendo l'orizzonte di un futuro possibile, che deve essere condiviso dalla famiglia e dagli altri soggetti coinvolti nel processo di integrazione. Di fondamentale importanza è la costruzione di una rete territoriale mediante la quale è possibile dare continuità al percorso formativo, individuando le attitudini e gli ambiti che rendano possibile per gli allievi con handicap un futuro socialmente attivo al termine degli studi. Questa posizione include e prevede anche l’attivazione di percorsi socio -terapeutici o l’inserimento in centri di socializzazione là dove non tutti i soggetti possiedano le possibilità di essere inseriti all’interno di un ambito professionale. Come per tutti gli alunni, gli orientamenti rispetto al progetto di vita dovrebbero iniziare fin dalla Scuola dell’Infanzia, venendo a costituire un processo continuo che accompagna i bambini ed i ragazzi nel corso della crescita, supportandoli nel percorso della conoscenza di sé, delle proprie capacità, desideri ed aspirazioni.

Progetto di vita è innanzitutto una riflessione in prospettiva futura, o meglio un pensare doppio, nel senso di immaginare, fantasticare, desiderare, aspirare e contemporaneamente un preparare le azioni necessarie, prevedere le varie fasi, gestire i tempi, valutare i pro e i contro, comprendere la fattibilità e costituire dei setting. È un pensiero progettuale che può quindi dirsi sia caldo che freddo. Certo pensare di poter progettare la vita può suonare come un azzardo, uno sforzo inutile ed un atto di superbia perché come si può pensare di progettare la vita di qualcuno? Ma pensare al progetto di vita significa pensare in orientamento di una prospettiva, interno alle varie attività, continuo e costantemente attivo nella definizione degli obiettivi a lungo termine, nella scelta dei criteri per gli obiettivi a medio termine, nelle attività di valutazione autentica e di sviluppo relazionale e psicologico. È evidente che questo sguardo lontano potrà diventare molto concreto e applicato nel dettaglio quando l’età lo consentirà, ma sarebbe un errore pensare che il Progetto di vita diventi di attualità solo con l’adolescenza. All’interno della scuola dell’infanzia ad esempio si potrebbe avere una buona attenzione al progetto di vita se venisse data la giusta importanza alle autonomie, ma non soltanto quelle personali, alla comunicazione in contesti reali, alla capacità di interagire con gli estranei, di esplorare in modo psicologicamente adatto il proprio corpo, di costruirsi buone rappresentazioni dell’ambiente, e così via.

Al di là comunque dei ruoli istituzionali che dovrebbero esercitare le Amministrazioni Pubbliche, occorre ricordare che le alleanze produttive, sono l’esito di un atteggiamento di empowerment dell’altro come partner affidabile, che si potrebbe tradurre con riconoscimento, valorizzazione delle sue risorse e miglioramento delle sue capacità di azione. Questo atteggiamento di fiducia nelle capacità educative tra un insegnante e le altre persone facenti parte del mondo sociale del bambino/ragazzo disabile è difficile perché spesso non c’ è riconoscimento e stima reciproca, non c’è valorizzazione dei punti di forza e non c’è un aiuto concreto per sviluppare capacità nuove. Talvolta c’è paura di subire un ennesimo processo, stanchezza e appiattimento su relazioni collusive, che non hanno il coraggio di stimolare un cambiamento, oppure c’è critica, competizione, aggressione e sfiducia. È su queste difficoltà seppur note che occorre cercare di agire costruttivamente, sapendo che un’alleanza starà in piedi e sarà produttiva nella misura in cui entrambi i partner ne ricavano qualcosa: ascolto, sostegno psicologico, aiuto pratico, formazione di competenze, ecc. Un Progetto di vita è un’impresa collettiva, realizzabile solamente considerando il soggetto disabile come unico e vero solo protagonista della sua esistenza.

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FILMOGRAFIA

 

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[1]http://www.treccani.it/

 

[2]  Ibidem

[3]Marcialis P. (a cura di), Educare e ricercare. Oltre la fine della pedagogia nella cultura contemporanea, Franco Angeli, Milano, 2015, p. 100

[4] http://www.treccani.it/vocabolario/handicap/

[5] A. Canevaro, Questioni, sfide e prospettive della pedagogia speciale. L’impegno della comunità di ricerca, Liguori Editore, Napoli, 2012, p. 133

[6] Ivi, p. 134

[7] Ivi, pp. 176-77

[8] Ivi, p. 177

[9] Massa R., Educare o istruire? La fine della pedagogia nella cultura contemporanea, Unicopli, Milano, 1987, p. 23

[10] Ivi, p. 57

[11] A volte persino nel senso di essere “beneducato”, cioè di acquisire le regole di base della vita in relazione con altri.

[12] Sclavi M. (2000), Arte di ascoltare e mondi possibili: come si esce dalle cornici di cui siamo parte, Mondadori, Milano, 2003

[13] Massa R., op. cit., p. 57

[14] Il concetto di educazione come esperienza è stato elaborato in modo brillante e pionieristico da John Dewey all’inizio del ‘900. Vedi Dewey, J. (1938), Esperienza ed educazione, Raffaello Cortina, Milano, 2014

[15] Ferrante A., Materialità e azione educativa, Franco Angeli, Milano, 2016. L’autore fa l’esempio di un proiettore utilizzato in aula per visualizzare delle slides. Quando il proiettore si rompe, si nota come esso abbia un ben preciso ruolo nell’azione educativa, e non sia quindi un elemento ininfluente ai fini dello svolgersi concreto del processo formativo.

[16] Massa R., op. cit., pp. 71-72

[17] Ivi, p. 76

[18]Vedi Mottana P. (a cura di), L’immaginario della scuola, Mimesis, Milano, 2009

[19] Marcialis P. (a cura di), Educare e ricercare. Oltre la fine della pedagogia nella cultura contemporanea, Franco Angeli, Milano, 2015, p. 100

[20] In riferimento alle dimensioni affettive ed erotiche della relazione educativa, intesa come se-duzione.

[21] Zannini, L., La tutorship nella formazione degli adulti. Uno sguardo pedagogico, Guerini Scientifica, 2017. Pag. 39

[22] Ivi pag. 40

[23] Ibidem

[24] Ibidem

[25] Idem pag. 41

[26] Ibidem

[27] Palmieri, C., La cura educativa riflessioni ed esperienze tra le pieghe dell’educare, Franco Angeli, Milano, 2003, pp. 82-3

[28] Avengers: Age of Ultron, Marvel Studios, Walt Disney Studios Motion Pictures, Joss Wheadon, 2015

[29] Zannini, L. , La tutorship nella formazione degli adulti. Uno sguardo pedagogico, Guerini Scientifica, 2017. Pag. 47

[30] Tramma S., L’educatore imperfetto, Carocci Faber, Roma, 2011

[31]Tramma, L’educatore imperfetto. Senso e complessità del lavoro educativo, Carocci Faber, Roma, 2011, p.12

[32] http://hubmiur.pubblica.istruzione.it/web/ministero/cs070417bis

[33] Lanzara G. F., Capacità negativa: capacità progettuale e modelli di intervento nelle organizzazioni, Il Mulino, Bologna, 1993, p.104

 

[34]Pavone M., L’inclusione educativa. Indicazioni pedagogiche per la disabilità, Mondadori Università, Milano, 2014, p. 162

 

[35] http://www.istruzione.lombardia.gov.it/wp-content/uploads/2013/02/genweb-progettare-per competenze.pdf

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