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La configurazione dello spazio nei servizi educativi, 

dall’ADM agli Appartamenti.
Immaginario e reale, dalla mente dell’educatore al quotidiano del minore.

Gran parte del carattere di ogni uomo

può essere letto nella sua casa.
(John Ruskin)

 

Incipit[1]

 

Perché interrogarsi sulla questione dello spazio, inteso come intenzionalmente pensato per supportare un lavoro educativo?

Nello specifico cercheremo di ragionare sullo spazio intenzionale entro il quale si dipana la storia della relazione educativa di ognuno di noi: la casa.

L’obiettivo è quello di ragionare sulla casa – reale o “artificiale” - come specchio e come doppio di chi la abita, considerando lo spazio della casa in quanto elemento di “genere femminile” e, per questo, in vicinanza particolare – ma non esclusiva - con la figura materna (es.: coincidenze, scontri, alleanze…; conseguenze rispetto all’identità del bambino…).

La finalità del lavoro consiste nel giungere ad elaborare una visione condivisa dal gruppo di lavoro rispetto a ciò che significa, ai fini del lavoro educativo, lo spazio CASA.

L’andare dell’educatore a domicilio, o lo stare dello stesso all’interno di un servizio residenziale/semiresidenziale non è, forse, principalmente, una questione di spazi? Una questione che riguarda uno spazio fisico, ma anche una questione di spazio di pensiero rispetto ad un contesto?

La domanda fondamentale che può tenere legati scenari educativi e sociali e una scena privata (che però non può non dirsi sociale) dovrebbe essere quella relativa alla qualità delle relazioni che riusciamo ad instaurare tra e con le persone con cui veniamo a contatto: il lavoro educativo a domicilio o il lavoro presso servizi residenziali migliorano la qualità delle relazioni perché contribuiscono a liberarle, a curarle (in quanto se ne prende cura), ovvero sono in grado di aprire ad orizzonti di senso più ampi di quelli che precedevano l’incontro stesso e più ampi di quella che abbiamo chiamato scena privata?

 

  1. Lectio brevis

 

Perché indagare il tema della casa?

Perché esso rientra, con modalità diverse, in tutti i racconti e le esperienze delle/degli educatrici/educatori; perché la casa è lo spazio simbolico e concreto al tempo stesso dal quale sempre si parte e sempre si fa ritorno; perché è l’elemento concreto che differenzia il lavoro educativo a domicilio, appunto, da tutte le altre pratiche educative che comportano un afferire al servizio; perché la casa è luogo femminile per eccellenza, luogo da cui si esce dopo una lotta di emancipazione; perché la casa può essere considerata spazio di espressione o di segregazione, di protezione o di tradimento; perché ciascuno di noi viene da e abita in una casa (quella reale e quella che viene desiderata). Ovvero, come qualcuno ha scritto, la casa che io abito è quello che io sono[2].

Prima diventa però importante spostare per un momento l’attenzione su un piano più generale, un piano che vuole connettere il lavoro nel piccolo spazio privato di una casa con la visione dello spazio sociale più ampio.

La questione potrebbe sembrare più laterale rispetto al tema in oggetto, ma a mio modesto avviso è altrettanto decisiva, infatti il sociale è lo spazio, il teatro, nel quale si gioca la partita del “potere”, ovvero dell’imposizione di una visione della realtà.

In questo senso l’educatore, che entra in casa o che accoglie in un servizio residenziale e che è mandato, in qualche modo, da un servizio che è definito come sociale, diventa portatore di una ben precisa visione del mondo e di come si sta in questo mondo. L’educatore, dunque, non può non essere consapevole di questo potere che, più o meno velatamente, l’altro nella relazione gli riconosce.

 a. Lo spazio sociale: il villaggio dietro le relazioni.

Tu prova ad avere un mondo nel cuore

e non riesci ad esprimerlo con le parole

e la luce del giorno si divide la piazza

tra un villaggio che ride e te, lo scemo che passa,

e neppure la notte ti lascia da solo:

gli altri sognan se stessi e tu sogni di loro.

E sì, anche tu andresti a cercare

le parole sicure per farti ascoltare:

per stupire mezz’ora basta un libro di storia,

io cercai di imparare la Treccani a memoria,

e dopo maiale, Majakowsky e malfatto,

continuarono gli altri fino a leggermi matto.

 

E senza sapere a chi dovessi la vita

In un manicomio l’ho restituita:

qui sulla collina dormo malvolentieri

eppure c’è luce ormai nei miei pensieri,

qui nella penombra ora invento parole

ma rimpiango una luce, la luce del sole.

Le mie ossa regalano ancora alla vita:

le regalano ancora erba fiorita.

Ma la vita è rimasta nelle voci in sordina

Di chi ha perso lo scemo e lo piange in collina:

di chi ancora bisbiglia con la stessa ironia

una morte pietosa lo strappò alla pazzia.

                                                (F. De André)

 

Il titolo completo della canzone di Fabrizio De André è questo: Un Matto (dietro ogni scemo c’è sempre un villaggio). La canzone è del 1972 e si ispira ad uno dei personaggi dell’Antologia di Spoon River, scritta da Edgar Lee Master.

Il testo è volutamente provocatorio: quante persone conosciamo che non hanno parole per esprimere quello che si portano dentro? Quante persone incrociamo ogni giorno che vivono soltanto tra voci in sordina o nei bisbigli dei “sani”? E, parlando di spazi, in quale metà della piazza pensiamo di trovarci?

Per quanto diverse possano essere le risposte di ognuno c’è però un fatto concreto, incontrovertibile: il villaggio è uno solo. Per i sani e per i matti. Per gli operatori e per gli utenti. 

Quello su cui si vuole porre attenzione è il processo di perdita di senso (ovvero il segno e la direzione) del villaggio. Si pensi all’espressione che viene utilizzata per descrivere l’ambiente di vita che contraddistingue il nostro tempo: villaggio globale.

Il termine villaggio, secondo quanto ci suggeriscono gli storici, serve ad indicare il più piccolo insediamento umano sul territorio, con una precisa struttura urbanistica che contempla la dotazione di alcuni servizi di base a disposizione degli abitanti del villaggio stesso.

Esso aveva il suo senso nello stare vicino ai campi, quasi attaccati alla terra che regolava tempi, fortune e disgrazie degli uomini.

Il villaggio non era circondato da mura, non aveva scopi difensivi, ma era formato da abitazioni allineate lungo una strada, oppure consisteva in un agglomerato di case o, ancora, vedeva le case disposte attorno ad un centro.

Oggi il villaggio è diventato, tutt’al più, turistico e il centro è, senza dubbio, quello commerciale.

L’idea è che il mondo possa diventare villaggio in virtù del fatto che grazie alla TV e a Internet le notizie da tutto il mondo hanno diffusione in tempo reale e si crea una rete che racchiude tutti in modo “democratico”, perché il commercio e la finanza sono ormai da pensarsi su scala mondiale, perché si viaggia in misura sempre maggiore e ci si mescola…

In realtà si stanno moltiplicando anche quelli che qualcuno definisce i “non luoghi”: luoghi di passaggio (dei quali non ci importa nulla e sappiamo ancora meno…), luoghi di consumo (nei quali l’importante è prendere al minor prezzo…), luoghi da sfruttare (senza preoccuparsi del “dopo”…).

Il villaggio globale è, in termini di pensiero educativo, una contraddizione in termini (perché è chiaro che possono esistere solo villaggi particolari) che ha comunque modificato il senso dello stare nel mondo e, conseguentemente, ha modificato il modo di creare relazioni e di percepire il senso della propria storia.

Per ritornare alla metafora della canzone di De André, oggi, nel nostro non-villaggio, i matti (nel senso dell’intendere come si sta in questo spazio) sono quelli che non vanno ai telequiz per stupire il tempo di mezz’ora, sono quelli che si piccano di conoscere il loro vicino di casa, quelli che vorrebbero poter avere delle città che non sono pensate soprattutto per le auto, quelli che non cercano la facile (o esclusiva) apparenza…

Quelli che in altri tempi avremmo definito “matti” sono diventati i veri eroi del nuovo villaggio-che-non-c’è: quello senza tempo e senza spazio.

Se non si prende coscienza di questo cambiamento di senso che ci è stato imposto e che accettiamo (e che, in qualità di operatori sociali, in un certo senso avalliamo), non possiamo neppure motivare il perché della necessità di lavorare puntando sull’educazione in un contesto che è privato.

Se non è giusto che le donne e le madri, i padri, i figli che affianchiamo stiano solo “dentro”, li facciamo uscire, ma per metterli dove? In una terra di nessuno?

Che senso ha dire: “non ci sto più dentro”? Cosa significa dire: “sei fuori”? E cosa significa l’espressione “ti metto dentro”?  Perché c’è un “essere fuori” che è “alla moda” e un altro che è “patologico” o “socialmente a rischio”?

E’ una questione di spazi, di case e di baracche: per scegliere come agire e perché agire, cosa raccontare e perché raccontarlo, è indispensabile che un educatore capisca in che mondo si trova e in che mondo invita gli altri ad abitare.

Parafrasando S. Paolo potremmo dire così: se invitiamo qualcuno a sperare in una storia personale migliore di quella che sta vivendo, dobbiamo essere in grado di rendere ragione di questa speranza che, in un modo o nell’altro, in noi deve pur abitare.

b. Le relazioni che fondano il villaggio.

“La civiltà odierna è tenuta insieme non dall’idea di bellezza, di verità, di giustizia o di destino, non da una forza basata sulle armi come la pax romana, non da leggi, divinità e lingua comune, o dalle fedi condivise. Soltanto le idee del business sono realmente universali”

(J. Hillman, Il potere, Rizzoli, Milano 2002, pag. 17).

Ancora una volta è una questione di spazi.

Infatti se consideriamo vera, o verosimile, l’affermazione dello psicologo statunitense, dovremmo sforzarci di capire quale sia lo spazio di manovra che ci è concesso per muoverci tra le strade del nostro villaggio (il sociale) al fine di proporre occasioni di relazione e di racconto non manipolatori, ma in grado di liberare.

Valeria Chioetto, introducendo un testo da lei curato sul tema della manipolazione (V. Chioetto, Manipolazione, Anabasi, Milano 1993, pagg. I-XXVI), suggerisce a questo riguardo alcuni spunti interessanti.

Gli Educatori corrono il rischio di vedere orientato dal business tutto il loro lavoro. Il problema è dato dal fatto che gli educatori hanno a che fare con le persone e con i sogni di felicità di queste persone.

Pertanto non è indifferente se gli uomini e le donne che si incontrano diventano di volta in volta (secondo categorie prettamente economiche) utenti, clienti, pubblico, target, piuttosto che popolazione, società civile, individui, mamme… Non è indifferente per il nostro lavoro pensare progetti in termini di business plan, di efficienza, di efficacia, di innovatività, di valutazione, di “ritorno” o di ricaduta del progetto… Non è privo di senso ragionare in termini di economizzazione delle risorse, di contenimento delle spese, di professionalizzazione degli operatori, di certificazione della qualità… Non è casuale parlare di indagine dei bisogni, di interviste qualitative e quantitative, di sondaggi di opinione…

Lo spazio che andrebbe riaffermato è invece quello del pensiero che l’educazione (ovvero il mondo delle relazioni) è espressione di quell’inutile immateriale che, unico, è in grado di prendersi realmente cura dell’uomo.

Spendere risorse per tentare di migliorare le relazioni tra persone è quanto di più antieconomico possa esserci, sia in termini di tempi che in termini di soldi e di “ritorno” di potere.

Ma è solo attraverso la qualità della cura che si aiutano (si educano) le persone ad acquisire la coscienza di potere compiere scelte significative per la loro esistenza.

E la cura è un’opera concreta che non tiene conto di tempi e di “potere”.

Per questo il lavoro educativo deve ritornare all’ “accezione inequivocabile del termine manipolazione”, cioè quella che “riguarda l’intervenire fisico delle mani su una qualsiasi materia da plasmare, aggiustare, curare” (V. Chioetto, op. cit., pag. II).

Mettersi in relazione è qualcosa di concreto, che coinvolge l’uomo in modo totale, con la necessità di creare punti di contatto veri: è possibile fare educazione solo se il villaggio in cui abitiamo è reale, se nelle sue strade posso camminarci, se le sue piazze sono fatte per far incontrare le persone, se le storie che vi racconto sono fatte di “carne e di sangue”, se l’educazione che si ha in mente è fatta non solo di tecniche, se si compie lo sforzo di non mano-mettere i rapporti che vengono a crearsi, se si crede che l’altro non è solo un ostacolo per la mia realizzazione.

Educazione è questione di fare spazio, più che di occuparne.

 

 

  1. Laboratorium e Forum

 

A partire dalle riflessioni elaborate in avvio di percorso e prima di ragionare sull’educativo come spazio intenzionale di lavoro sulle relazioni, pare fondamentale raccogliere elementi su ciò che costituisce nel professionista il pre-giudizio che istruisce il suo riconoscere la qualità degli spazi e ne guida l’approccio, la conoscenza puntuale e le operazioni di trasformazione.

A mo’ di laboratorio personale è stato chiesto che venisse rappresentata su un foglio, utilizzando immagini, fotografie, schizzi a matita e a colori, cosa rappresenta – nella sua essenza – una casa. Partendo dalla propria esperienza reale è importante rendere esplicita la propria idea di spazio di vita ideale, perché questo si cerca e si offre.

Parte del lavoro di riflessione era poi costituita dalla determinazione di cinque caratteristiche fondamentali dello spazio, così come è stato descritto e dall’assegnazione di un titolo complessivo all’elaborato.

 

Questi sono stati i risultati del lavoro:

 

  1. … finalmente a casa…: luce, calore, confusione, a mio agio, ritorno (casa è tornare tutti).

 

 

 

 

 

 

  1. Un sogno diventato quasi realtà: spaziosa (sacrificio, scelte, indecisione), accogliente, sostenibile, funzionale, con colori caldi, tempo da dedicarci (realizzata grazie all’aiuto di…).

 

 

 

 

 

 

  1. Mettere insieme i pezzi: un luogo in cui stare, da lasciare per poi tornare; un luogo mio, con la porta aperta; ogni cosa al suo posto, ma non per forza in ordine; un luogo in cui vivere liberamente, senza convenzioni; un luogo di cui prendermi cura.

 

 

 

 

 

 

 

 

  1. Dove c’è casa, c’è passato, presente e futuro: cucina, bagno per rilassarmi, spazio per le passioni e i ricordi – manualità, viaggi, foto -, contatto con la natura e con l’esterno, spazio per accogliere animali.

 

 

 

 

  1. Qui: calore, luce, affetto, cibo, musica.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  1. Luogo: spazio privato, spazio aperto, spazio pensato, spazio condiviso, spazio abitato.

 

 

 

 

Da questa prima veloce e sommaria presentazione emergono immediatamente alcune attenzioni prioritarie condivise, che si traducono in altrettante linee di tensione le quali, a loro volta, risultano estremamente interessanti in un’ottica di interrogazione educativa sulla qualità degli spazi.

Dunque, prima di tutto, emergono gli elementi legati alle sensazioni del corpo nello spazio-casa: la ricerca di luce e luminosità, la percezione del calore fisico e affettivo, la voglie di essere vicini, il bisogno di rilassarsi/abbandonarsi, la necessità di una cura in cui tanta parte ha l’attenzione per il cibo.

In secondo luogo la casa è spazio dove si generano tensioni: tra uno spazio privato che separa da ciò che ci mette in pubblico; tra tutto ciò che posso sentire “dentro” e ciò che mi è “fuori”; tra il sogno e la realtà; tra l’andare e il ritornare; tra l’aperto e il chiuso; tra l’ordine e il poter fare a meno dell’ordine stesso.

Da ultimo, emerge un importante pensiero sullo spazio-casa come luogo dove poter finalmente sentirsi al riparo dallo sguardo dell’altro.

Se queste sono le corde che risuonano quando ci si approccia al tema di “ciò che è riconosciuto come casa”, potrebbe essere che siano le medesime che attiviamo nell’attraversare, visitare e/o predisporre spazi dove permettiamo alle relazioni di fermarsi e, in maniera intenzionale, crescere e trasformarsi. Allo stesso modo potrebbe essere plausibile che chi attraversa, visita e resta/sosta negli spazi che noi predisponiamo per incontrarlo cerchi medesime situazioni e viva identiche tensioni.

In questo senso diventa importante, in ordine all’agire educativo, riconnettersi alla questione del potere che si gioca nello spazio, soprattutto in ordine al fatto che negli interventi educativi non è pensabile una situazione in cui ci sia la possibilità di sottrarsi completamente allo sguardo dell’educatore. Questo ci deve far riflettere sul fatto che, per quante attenzioni si possano riversare nella predisposizione dei nostri contesti di lavoro, questi rimangono pur sempre dei “laboratori artificiali” che non possono mai del tutto sostituire la casa. Anche per chi non ne ha una sua. Anche per chi arriva da situazioni disastrate.

 

  1. L’educatore nello spazio

 

Acquisite alcune linee di attenzione e ordinato uno sfondo su cui potersi porre alcune domande utili a considerare un approccio educativo agli spazi di relazione, si è passati ad affrontare un secondo passaggio, lavorando in piccolo gruppo sulla delineazione delle caratteristiche di due tipi di spazio di lavoro educativo che hanno attinenza con la casa:

  • Lo spazio del domicilio del minore (incontrato in Assistenza Domiciliare)

  • Lo spazio di un servizio residenziale (Comunità presso le quali afferiscono minori inviati dai Servizi Sociali)

L’idea alla base del lavoro proposto era quella di interrogarsi rispetto ad alcuni nodi di progettazione di un intervento educativo:

  • Che cosa osservo o potrei osservare nello spazio?

  • Chi detta –in quello spazio- regole, tempi, modalità di organizzazione dei materiali?

  • Che margini di manovra ha l’educatore nel contesto?

  • Chi ha il “potere” maggiore tra gli attori in scena rispetto alla gestione dello spazio?

  • Quali elementi di rischio riscontro?

Questo è il quadro di quanto è emerso:

Servizio residenziale

 

Domicilio

Divisione degli spazi in base a come e a da chi sono vissuti (“spazio giorno” – “spazio notte”)

Cosa osservo

Disposizione delle stanze; ordine e pulizia; arredamento/attrezzatura essenziale (corrente, gas, numero di letti, cucina…)

L’équipe educativa, con un margine di negoziazione

Chi detta regole, tempi etc.

Routine familiare; chi si occupa più da vicino del minore? Chi si occupa più da vicino della casa?

Dipendono dalla “visione pedagogica” (della cooperativa/ente), dall’utenza, dai limiti e vincoli strutturali/materiali/economici

Margini di manovra dell’educatore

Creare una relazione collaborativa e di fiducia; aprire uno spazio di confronto; gestire la conflittualità; l’educatore si ritaglia un suo spazio in un luogo che non gli appartiene e la famiglia lascia uno spazio all’educatore

Ci sono dimensioni diverse del potere, ma quello “istituzionalmente” inteso è quello più forte (soprattutto perché si parla di minori)

Chi detiene il potere

L’educatore ha un mandato, la famiglia può generare il cambiamento

Mancato aggancio relazionale; pericolo/libertà sull’aspetto delle regole; non rispettare le necessità di tutti

Elementi di rischio

Non soddisfare le condizioni descritte nel punto “margini di manovra”

 

Operando una sintesi di quanto emerso dal confronto si potrebbero evidenziare alcuni punti:

  • per quanto riguarda il lavoro al domicilio del minore - situazione che l’educatore incontra come data in sé - acquistano grande rilievo da subito elementi riconducibili ad una dimensione valutativa tesa a verificare l’adeguatezza dello spazio (è ordinato? È pulito? I letti sono sufficienti?). In particolare, alcuni riferimenti (alla corrente e al gas) sono significativi in quanto aspetti ai quali badiamo solo in veste di educatori: se entrassimo in una casa qualunque da semplici ospiti, parenti, visitatori, probabilmente non verrebbe mai di chiedersi se l’abitazione è fornita adeguatamente di tutte le utenze.

  • Quanto riportato sopra spiega quanto il nostro sguardo e ciò su cui poniamo attenzione siano influenzati e guidati dal ruolo che ricopriamo. In questo senso diventa necessario un lavoro di scoperta e decostruzione dei nostri impliciti educativi. C’è da chiedersi, ad esempio, se non sia in un certo qual modo adeguato il vissuto di controllo e di invasione del proprio spazio in quegli utenti che decidono di non aprire la porta in ADM. Infatti la persona non ha solo il timore di essere controllata, valutata e giudicata, ma di fatto lo è, perché tali dimensioni sono parti integranti del lavoro educativo, soprattutto in contesti di tutela dei minori. Questo aspetto risulta probabilmente, e per certi versi auspicabilmente, ineliminabile; forse però è proprio in questo spazio immateriale che trova concretezza il margine di azione nel quale l’educatore si gioca il suo ruolo.

  • La scelta della postura, delle distanze fisiche, dei gesti, delle parole e delle lenti che indossiamo nel momento in cui entriamo nella casa di un utente possono forse migliorare anche la percezione che gli stessi si costruiscono circa il ruolo e il mandato dell’educatore? Senza tradire il mandato di verifica e valutazione al quale inevitabilmente siamo vincolati, è possibile entrare in una casa osservando aspetti non immediatamente riconducibili alla dimensione della valutazione delle possibili carenze (come se già ci si aspettasse un ambiente poco curato, trasandato e malconcio), ma delle potenzialità e delle risorse, esplorando l’ambiente seguendo tracce meno prescrittive e più generative, semplicemente le stesse che seguiremmo entrando in una comunità (ovvero in uno spazio che riconosciamo come intenzionalmente orientato in senso educativo): non come, ma da chi sono vissuti questi spazi? Di chi e di cosa raccontano? Di quali momenti della giornata?

 

  1. Pensare uno spazio educativo

 

Siamo all’ultimo passaggio della riflessione e per condurla a buon fine è necessario che ci si riporti alla conclusione del capitolo precedente, nel senso che non si deve dare per scontato il pensiero che è sotteso ad uno spazio di lavoro, pur se pensato da professionisti dell’educazione.

Quindi è importante chiedersi quali possano essere i punti chiave che determinano - o potrebbero determinare - le caratteristiche di un modello di servizio di accoglienza, così come è importante trovare una sintesi che le unifichi.

Si pensi alla varietà dei nomi che identificano gli spazi di accoglienza. Che messaggio veicolano a chi ne attraversa la soglia, siano essi i professionisti che vi lavorano o gli ospiti che li abitano per una parte della loro vicenda di formazione?

Di seguito proveremo a raccogliere alcuni spunti e alcune proposte nati dalla condivisione in gruppo.

  1. “Gli spazi raccontano storie(?)”

Uno spazio educativo in un servizio di accoglienza dovrebbe essere:

·         Desiderato e pensato, voluto da tutte le parti in gioco, dai piani gestionali a quelli operativi;

·         Co-progettato da chi lo abita: operatori e utenti – perché possa essere “a loro misura”;

·         Modificabile nel tempo dalla storia (desideri, azioni, interessi ...) di chi lo abita;

·         Utile e piacevole perché ci sia un negoziabile equilibrio tra regola e libertà;

·         Finzionale ma non finto: in cui sia possibile vivere esperienze protette ma autentiche

 

b) Comunità dolce comunità

Riflettendo e rileggendo i lavori svolti all’interno del workshop, per me uno spazio educativo di accoglienza è:

  1. Luminoso. Il primo impatto è quello visivo. Immagino il piacere dell’utenza all’entrata in una casa bella da vedere, luminosa, dove sia piacevole la permanenza.

  2. Diviso in spazi comuni e spazi privati. E’ importante per me la presenza di una zona, ben predisposta, dove sia facilitata la relazione tra gli utenti, (una grande sala, che possa permettere a tutti di sedersi a parlare, un tavolo da pranzo dove tutti possano vedersi tra di loro, una cucina abitabile, che favorisca la preparazione dei pasti anche insieme...) e una zona dove ciascuno possa rimanere da solo, uno spazio che sia solo dell’utente e uno spazio vissuto solo dagli educatori (sala équipe, stanza degli educatori).

  3. Regolato da poche norme, uguali per tutti, perché la convivenza possa essere pacifica e le modalità di vivere gli spazi siano chiare.

  4. Vissuto da entrambe le parti. Immagino uno spazio luminoso, accogliente e neutro. Con il passare del tempo chi lo abita lo rende più vicino a ciò che è e ciò che sente, senza però trasformarlo in maniera totale. (Es. mi immagino una casa dalle pareti bianche, che con il passare del tempo e con il lavoro di tutti gli utenti possa colorarsi oppure arricchirsi con dei quadri, delle foto, che rendano lo spazio vivo, ricco di dettagli di coloro che ci vivono dentro.)

  5. Pensato con una routine, stesa precedentemente da coloro che ci lavorano, ma poi condivisa e modificata in base all’utenza con cui ci si trova a vivere lo spazio. Mi piace pensare che in uno spazio di accoglienza l’utenza sia a conoscenza del fatto che al suo interno accadano sempre le stesse cose. Questo non crea una monotonia, ma una sicurezza. Una delle caratteristiche principali, per me, deve essere la creazione di un ambiente abitudinario, cadenzato da momenti che ritornino sempre.

 

c) Le fondamenta della comunità

  1. Un servizio di accoglienza dovrebbe avere gli spazi adeguati per coloro che vengono accolti e per coloro che accolgono. La mia impressione è che, spesso, si pensa molto agli spazi dei bambini e dei ragazzi, perché abbiano locali consoni, giochi e strutture a loro misura. A questa attenzione non sempre corrisponde la cura per gli spazi degli educatori, spesso ricavati e rimediati in qualche modo. Nella mia esperienza ho imparato che valorizzare il lavoro degli educatori, offrendo spazi adeguati e dignitosi, che rispettino anche la loro sfera privata e li facciano sentire a proprio agio, permette un lavoro migliore dell’intero servizio. Anche gli spazi, la loro disposizione, la cura e l’adeguatezza sono un messaggio di rispetto del valore umano.

  2. Una comunità di accoglienza dovrebbe assicurare alcuni servizi essenziali, ma non esaurire ogni possibile necessità di chi vive al suo interno. Bambini e ragazzi della comunità dovrebbero imparare più di altri a chiedere aiuto e rivolgersi a molte figure differenti per rispondere ai propri bisogni. Da qui l’importanza di uscire e affrontare la realtà, imparando a gestire frustrazioni, attese, contraddizioni e rifiuti. L’accentramento di molti servizi all’interno della stessa struttura (es, medico, spazio neutro, psicologa, animatori per il tempo libero...) sicuramente agevola la linearità dei percorsi, ma quanto aiuta bambini e ragazzi quando per loro verrà il tempo di uscire?

  3. Un servizio residenziale deve essere percepito come tutelante per i bambini: all’interno e all’esterno devono sentirsi al sicuro, liberi di sperimentarsi e fare esperienze.

  4. Una comunità dovrebbe garantire spazi personali e spazi condivisi, entrambi fondamentali, accessibili in ogni momento, esattamente come in una casa.

  5. Regole e abitudini non possono rimanere sempre uguali. I bambini crescono, vanno e vengono, i tempi cambiano...Le regole devono essere provvisorie, modificabili e prevedere delle eccezioni. Sebbene faticoso, ciò aiuta i bambini a vivere nella realtà fatta di contraddizioni e repentini cambiamenti. La sfida rimane quella di avere la consapevolezza dei motivi dei cambiamenti, rendendoli visibili anche a coloro di cui ci occupiamo.

 

Alcune brevi note di sintesi a partire dalle suggestioni nate nel laboratorio:

  • uno spazio educativo non è solo apparecchiato per qualcuno. Se esso - come è stato scritto - è desiderato, allora ciò significa che lì c’è qualcosa che ci appaga o che ci manca: è qualcosa che, in parte, sta fuori di noi e genera un movimento verso di esso perché sentiamo che lì c’è qualcosa - o qualcuno - che ci completa. Quindi questo luogo è pensato e voluto, con la testa e con la pancia. Ma è così anche per chi lì dentro ci finisce “a forza”? Qual è il suo desiderio? Come mettere in comunicazione questi due orizzonti?

  • uno spazio educativo si misura con le regole: poche, chiare, in divenire, coerenti nel loro trasformarsi, comunicabili e comprensibili. Ma chi comincia questo gioco? A chi spetta la prima mossa?

  • uno spazio educativo tiene in sé pubblico e privato, piccolo e grande, ospite e professionista. Ma è anche uno spazio imperfetto, che non toglie il desiderio della vita che sta fuori. Uno spazio dove si “fa finta per davvero”, come a teatro. Dove si raccontano storie, ma dove non si esaurisce la storia. E quali sono, dunque, i segni che ci fanno capire che quello spazio, ad un certo momento, è diventato insufficiente al racconto di taluno o talaltro (educatori compresi)?

  • uno spazio educativo è un luogo sicuro. Forse più che un porto è il centro dell’uragano, l’occhio del ciclone. Intorno la vita può continuare ad essere distruttiva e pericolosa, ma c’è una possibilità che io la segua in posizione di relativa calma, aspettando che la forza cattiva si estenui, muovendomi con prudenza e valutando le conseguenze di quanto accade, preparandomi ad uscire.

  • Infine alcune suggestioni dai titoli: gli spazi dove può essere possibile che si raccontino storie, sono spazi che devono avere radici profonde (fondamenta) e salde. Invisibili, ma che rendono ragione del lavoro svolto. Gli spazi raccontano, poi, di un’organizzazione tra le persone che li abitano, non del caos: questa è la comunità. Da ultimo questi spazi sono dolci, cioè piacevoli, tranquilli, malleabili: in una parola, benigni.

 

Posticum

 

 

(Magritte R., Il cannocchiale, 1963)

 

Come uscire da questo spazio di discussione?

Come lasciamo una casa al termine di un incontro domiciliare? Come si esce da un servizio residenziale al termine del proprio turno di lavoro?

Come uscire da casa nostra per camminare nelle strade del villaggio che abitiamo?

Se è vero, come scrive Hillman, che il potere sta nella capacità che abbiamo di far vivere agli altri la nostra visione sulla loro realtà, l’uscita credo possa essere delineata dal pensiero che non è possibile non avere un pensiero sugli spazi in cui stiamo.

C’è sempre un teatro più grande di quello in cui recitiamo e un educatore non sta altrove rispetto alla questione della qualità di questo spazio, della possibilità di manipolazione di chi lo spazio lo abita e del potere che, dentro di esso, agiamo o subiamo[3].

Per questo motivo diventa, ancora una volta, decisivo il percorso che porta alla piena consapevolezza gli agiti impliciti della prassi educativa, come si è provato a suggerire, in modo iniziale, in questa sede.

 

 

Studenti: Silvia Mastrorillo, Ilaria Imo, Sara Mannino, Caterina Sapia, Giulia Lupano e Giulia Guagnano.

 

[1] L’articolo è stato curato, nella versione definitiva, da Massimo Aspesani (Cooperativa Sociale LaBanda) per le parti dell’incipit, della lectio e del posticum e per la redazione d’insieme; durante l’incontro del workshop sono stati elaborati i materiali che compongono le parti del laboratorium e del forum, con i relativi contributi scritti di Silvia Mastrorillo, Ilaria Imo, Sara Mannino, Caterina Sapia, Giulia Lupano e Giulia Guagnano.

[2] Indicativamente riportiamo alcuni passaggi di racconti di educatrici che sottolineano aspetti delle case visitate. Si fa accenno, per esempio al contrasto tra case vecchie e mamme giovani, oppure al presentarsi di case con poca luce, finestre chiuse. Si riporta il vissuto di mamme che cercano nella casa un rifugio di tranquillità in continuità con quello che era quello spazio per la bambina diventata madre. Si racconta del voler portare ordine in case in cui gli animali sono i veri padroni, in case che sono un caos, ma anche in case che sono totalmente prive di ogni cosa. Da ultimo si narra di migrazioni sistematiche in seguito alla nascita del bambino: la quasi totalità delle famiglie affiancate ha dovuto trovare una nuova sistemazione perché il bambino ha messo in evidenza l’inadeguatezza degli spazi.

  1. [3] Indicazione bibliografica di approfondimento: A. Ferrante, Materialità e azione educativa, Franco Angeli, Milano, 2016

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