
dal lavoro educativo...
sguardi di secondo livello
LA CONSULENZA PEDAGOGICA A SCUOLA
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Workshop condotto da: dott. Ernesto Curioni
Autrici del testo: Martina Azzarone, Silvia Serena Brambilla, Francesca Colistra, Veronica Cortinovis, Cristina Ferrario, Daniela Porro, Laura Pirotta, Lara Mariani, Sara Telasi
Introduzione
Questo articolo è il prodotto di un lavoro condiviso svolto dal gruppo che ha preso parte al workshop sulla consulenza pedagogica a scuola, tenutosi il 3 maggio 2017, presso l’Università Milano-Bicocca. Il dott. Ernesto Curioni, conduttore dell’incontro, ha guidato ed accompagnato i partecipanti all’approfondimento di questa tematica. Dall’interesse iniziale e condiviso dell’argomento discusso, il gruppo si è impegnato a scrivere una rielaborazione/riflessione su quanto emerso in aula durante l’incontro.
La consulenza pedagogica a scuola
Nella consulenza pedagogica a scuola sono presenti due tematiche di fondo che riteniamo fondamentale indagare e approfondire: la consulenza pedagogica e la scuola.
Per quanto riguarda il primo focus di attenzione è utile dare una iniziale - anche se sintetica - definizione di consulenza quale: «instaurazione, gestione, risoluzione di un rapporto tra due entità che decidono di interagire per analizzare e superare uno stato di bisogno/disagio dichiarato» (Regogliosi e Scaratti, 2009, p. 55). Indaghiamo ora il significato del termine “pedagogico” per capire in che cosa si differenzia tale consulenza, prettamente pedagogica, da un altro tipo di consulenza possibile. Al giorno d’oggi le tematiche pedagogiche e formative, infatti, sono elementi rispetto a cui ogni attore sociale (pedagogista, educatore, insegnante, genitore...) può esporre un proprio pensiero.
Se, da una parte, gli oggetti educativi sono “per tutti”, ciò che delimita e caratterizza il compito del pedagogista è l’approccio che esso propone rispetto a questi ultimi. In questo senso, si può chiamare “pedagogico” l’approccio educativo - pensato e progettato - che il consulente propone in un intervento, in questo caso, scolastico. Esso lavora sull’esperienza nella scuola attivando un processo formativo nei confronti degli attori presenti nel contesto, ri-significando le dimensioni, i processi, le dinamiche e gli oggetti che - troppo spesso - si danno per scontati e non vengono considerati come parte della materialità educativa. Il consulente, dunque, si fa garante dell’attivazione del processo formativo dell’esperienza del qui ed ora: osservando la realtà che ha davanti, de-costruendola, cogliendo i diversi nessi e i significati che fino a quel momento non sono stati pensati e/o colti dagli attori in gioco. Il concetto di de-costruzione del contesto richiama a sé il pensiero di una realtà fortemente complessa: etimologicamente, la parola “complessità” significa “insieme di tanti fili intrecciati tra loro” mentre il termine “semplice”, si traduce come “un solo filo”. Connotare l’esperienza scolastica come un’entità complessa deriva da Dewey (Dewey [1938] 2014) che, portando a confronto gli elementi della scuola tradizionale con quelli della scuola progressiva, riconosce all’esperienza un’importanza fondamentale: essa è interazione tra alunno e ambiente e, per questo motivo, deve essere pensata non solo la relazione, ma anche la materialità e il setting in cui si è e nel quale ci si muove, poiché «l’esperienza non si compie dentro una mente e un corpo “in solitaria”, ma avviene in determinate condizioni, all’interno della società umana che è il prodotto di chi ci ha preceduto» (Nigris, Negri, Zuccoli, 2007, p.46). Gli studi di Dewey verranno poi largamente ripresi, studiati e portati avanti da Massa (Massa [1997] 2015) che condividerà l’assunto di base del forte bisogno di cambiamento della forma dell’istituzione scolastica. Tale complessità viene sentita anche nella scuola odierna, la quale, tuttavia, reagisce ad essa attuando uno spostamento: le situazioni problematiche vengono percepite come così tanto complesse che gli stessi insegnanti sentono il bisogno di chiamare in causa uno sguardo differente, esterno e nuovo rispetto a quello educativo. La ricerca di una soluzione viene allora demandata ad una figura al di fuori della scuola, talvolta così esterna che esce anche dal campo pedagogico di azione (ad esempio: gli psicologi scolastici)..Questo approccio alla problematicità richiama il modello dell’esperto: ad una domanda, fatta da uno o più attori, compare la figura - ben incarnata dal ‘risolutore di problemi’ del celebre film Pulp Fiction che, chiamato da chi ha un problema, si presenta con la frase: “SONO IL SIGNOR WOLF: RISOLVO I PROBLEMI” - dell’esperto risolutore di problemi altrui che - con una sorta di bacchetta magica - è in grado di risolvere, da persona esterna, le difficoltà altrui. È qui agito il modello che Schein definisce modello medico-paziente secondo il quale il consulente ha il compito di: «effettuare una diagnosi del problema e di indicare le informazioni e le competenze necessarie per risolverlo» (Schein, 2000, p. 22) senza preoccuparsi, come invece avviene nella consulenza pedagogica, di invitare il soggetto a riflettere su questioni i cui significati sono dati per scontati o sono impliciti e inconsci. Certamente è possibile che ci siano degli ambiti in cui il primo modello delineato sia valido ma, come abbiamo avuto già modo di osservare, nell’ambito così complesso della scuola e dell’educativo, è preferibile di gran lunga prediligere il modello di consulenza pedagogica.
Il consulente pedagogico, dunque, deve essere consapevole che l’esperienza scolastica è - nel senso specificatamente dato da Michael Foucault (Foucault, 2011) a questo termine - un dispositivo: esso è formato da una serie di elementi eterogenei che si intrecciano, interagiscono e comunicano tra di loro e dai quali si producono continuamente degli effetti: visibili e invisibili, superficiali e profondi, pensati e non, positivi e negativi, ecc. Il concetto di dispositivo è stato successivamente ripreso da Riccardo Massa che lo ha definito come «la struttura impersonale ed elementare, invariante e inconsapevole, che occorre studiare come oggetto pedagogico, e a cui riferire la costruzione di un setting educativo» (Cappa, 2016, p. 41). L’invito, dunque, è quello di porre attenzione ad alcune dimensioni fondamentali quali spazi, tempo, oggetti, corpi, linguaggi, rituali, simboli, affetti e, più in generale, al contesto della scena educativa nella quale questi effetti si generano, imparando così a progettare consapevolmente le esperienze all’interno della scuola. Ad esempio, una particolare disposizione dei banchi in un’aula darà vita - e, quindi, genererà effetti - ad un particolare tipo di esperienza scolastica per gli alunni rispetto ad un altro tipo di collocazione. Siccome tali effetti saranno basilari per la formazione futura degli utenti è importante, da parte delle figure educative, interrogarsi continuamente e cercare di essere il più possibili consapevoli di che cosa le loro azioni possono generare - qualunque azione anche quella più lodevole. Dunque, un consulente pedagogico lungi dal voler adottare una modalità trasmissiva di conoscenza - in questo senso, si può osservare un modello tecnocratico di consulenza per cui ad una domanda di aiuto segue una risposta “esperta” da parte del consulente - dovrebbe invece adottare un modello relazionale nel quale le persone che chiedono consiglio sono poste nelle condizioni di rielaborare ed apprendere dalla loro esperienza vissuta, ri-significando le regole, le azioni, le dinamiche, le latenze che caratterizzano ogni azione educativa e di trovare loro stessi delle possibili soluzioni alla situazione che sentono come un problema. Questo modello si lega alla consulenza di processo teorizzata da Schein, il quale sostiene che il ruolo del consulente è quello di portare il cliente ad affinare le sue capacità di identificazione e di risoluzione del problema, egli: «può suggerire idee alternative alle quali il cliente non ha mai pensato. Ma incoraggia anche energicamente il cliente ad assumere la responsabilità finale della decisione operativa e delle azioni da intraprendere. Questo approccio non solo aumenta la probabilità di una soluzione del problema immediato ma, cosa ancora più importante, offre anche al cliente l’opportunità concreta di acquisire la capacità di risolvere problemi. Abilità di cui potrà avvantaggiarsi anche dopo che il consulente avrà terminato il suo compito» (Schein, 2000, pp. 28-29). È altresì importante sottolineare che: «non è imperativo il fatto che il consulente sia personalmente esperto nel campo specifico del problema» (Schein, 2000, p. 29), è invece fondamentale che sia esperto in materia di relazioni umane, capace di incentivare la collaborazione reciproca, abile nel porre domande e sollevare questioni su cui invita a riflettere. È quindi: «la creazione di una relazione con il cliente che permette a quest’ultimo di percepire, comprendere e agire sugli avvenimenti che si verificano nel suo ambiente interno ed esterno, allo scopo di correggere la situazione secondo la definizione del cliente stesso» (Schein, 2001, p. 22).
Il consulente pedagogico a scuola vuole quindi attivare un pensiero critico e riflessivo nei consultanti, ovvero far comprendere che ciò che esiste nel qui ed ora non è sempre esistito e non è l’unica forma possibile di fare esperienza scolastica, ma che ci sono molti altri modi di progettare e riprogettare il vissuto degli alunni: in questo modo gli insegnanti non sono attori passivi, ma attivi nel processo di consulenza. Infatti, non bisogna dimenticare, nella prospettiva in cui i diversi attori si collocano e interagiscono, che «i problemi identificati appartengono solo a loro [gli insegnanti], solo essi conoscono la situazione in tutti i suoi aspetti e sanno che cosa potrà funzionare per loro nella cultura in cui vivono» (Schein, 2001, p. 23).
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Un modello di consulenza pedagogica
Dopo aver esplicitato le basi e le dimensioni della consulenza, di seguito verrà illustrato un possibile modello di essa in una dimensione pedagogica, nella quale sono presenti cinque spostamenti, che guidano il consulente nel suo lavoro. Tali spostamenti descrivono quella che è un’esperienza scolastica:
1. La domanda arriva da un’insegnante → rispondere al gruppo di lavoro: la consulenza inizia sempre da una domanda di aiuto da parte di un attore in gioco in uno specifico contesto - in questo caso la scuola - che richiede la presenza di un consulente per un determinato problema. In questi casi il consulente ricorda all’insegnante (usiamo il femminile poiché in Italia le donne rappresentano la maggioranza all’interno del corpo docente) che, quando lavora in classe, è sola, ma nella scuola è parte di un gruppo di lavoro - team per la scuola primaria e consiglio di classe per la scuola secondaria - ed esiste sempre un legame tra la sensazione, negativa o positiva, di un insegnante con quello che percepisce il resto del collegio docenti. Una possibile tecnica di aiuto è allora chiedere agli altri insegnanti se ci sono elementi funzionali - che loro utilizzano - che possono essere consigliati alla collega temporaneamente in difficoltà. Questi aspetti di condivisione gruppale permettono di creare un lavoro d’équipe tra gli attori in gioco e di formare un effettivo gruppo di lavoro che, anche senza l’aiuto del consulente, è in grado di auto-aiutarsi. Il lavoro d’équipe è davvero una risorsa poiché: «il collegamento tra i vari punti di vista e tra le diverse competenze facilita la rilevazione dei bisogni degli utenti e il reperimento di risposte adeguate per un autentico servizio alla persona» (Simeone, 2011, p. 201). Questo avviene se, come sostiene Contessa (Contessa, 1999), nel gruppo di lavoro i soggetti si impegnano sia nella realizzazione del compito che il gruppo ha, e in virtù del quale esiste, sia se il parteciparvi dà la massima soddisfazione ai membri del gruppo, nel qui ed ora. Purtroppo, oggigiorno, questa dimensione di lavoro di équipe è poco presente nella scuola e andrebbe al più presto riscoperta per far fronte allo spaesamento e al crollo dei valori tradizionali a cui tale istituzione - e in generale la società - sta andando incontro negli ultimi anni.
2. La domanda come esistenza di un problema → riconoscimento di “cosa fa problema”: il “problema”, da una parte, deriva sempre da una interazione di fattori e, dall’altra, porta in sé sempre dei dati di soluzione - che vanno scoperti e fatti emergere. L’aspetto fondamentale che è auspicabile ricordare al cliente in una consulenza pedagogica è che il problema riscontrato è effettivamente un problema proprio perché viene vissuto e percepito come tale dalla persona. Infatti affermare “c’è un problema” premette una visione di esso come di un ostacolo insormontabile per il quale serve la figura di un risolutore esterno. Altresì, per avere la possibilità di superare la difficoltà, bisognerebbe invece dire “lo riconosco come qualcosa che mi fa problema”: questa prospettiva consente alla persona di comprendere come esso sia modificabile e, in ultimo, risolvibile.
3. La domanda si attesta su un soggetto problema, che diventa un caso → sguardo sulla situazione: quando si parla di “casi problematici” si ricade sempre in un modello medico-paziente il quale inizia da un’osservazione e prosegue con una diagnosi alla quale si aggiunge una soluzione ad essa collegata. I “casi” sono risolvibili allora solo attraverso un aiuto esterno rispetto al contesto educativo, poiché non identificabili da chi li vive quotidianamente. Lo spostamento pedagogico dal “caso” alla situazione avviene quando si comprende che la situazione che “fa problema” avviene sempre in un ambiente e quindi essa è il risultato di un’interazione di più fattori che si intrecciano continuamente tra di loro. La difficoltà di un’insegnante con un alunno problematico della classe allora non si costituisce solo dalla personalità vivace dello stesso, ma deriva anche da altri elementi che devono essere soppesati e pensati dalla figura educativa. In questa sede, l’approccio sistemico ci è d’aiuto poiché esso teorizza che il problema non è mai di una singola persona, ma del sistema a cui la stessa appartiene, il quale «comprende un’ampia rete di persone, coinvolte in modi diretti e indiretti nella relazione» (Formenti, Caruso e Gini, 2008, p. 11).
4. La domanda utilizza la generalizzazione → individuare un “episodio”: la generalizzazione - che può essere descritta dalle frasi “fa sempre così” o “si fa sempre così” - come la dimensione del “caso” ricade in una visione dell’educazione monolitica ed immobile la quale spesso si lega ad una diagnosi tassonomica (ad es. collocando il problema all’interno del DSM clinico). Il consulente, invece, ponendo l’attenzione su un episodio specifico della situazione vissuta come problematica dall’insegnante, è in grado di far uscire la stessa da una cornice di generalizzazione e assolutizzazione. Attraverso questo spostamento essa può realmente scoprire ed apprendere come gli episodi - in un primo momento visti come tutti uguali - sono in realtà differenti tra di loro: è attraverso tali specificità che si costruisce un cambiamento di sguardo e prospettiva e dalle quali si può giungere ad una possibile azione educativa al fine di risolvere il “problema”.
5. Lo sguardo della domanda tende a vedere “ciò che si ripete” → guardare le “differenze”: individuando gli episodi singoli, dunque, si evidenziano gli elementi che fanno la differenza ed è dentro tali diversità che si può arrivare a pensare e progettare concretamente un intervento educativo: si parla, in questo caso, di uno sguardo micrologico - ovvero attento alla materialità, ai singoli episodi e alle differenze - come un nuovo modo di fare scuola ed educazione.
Conclusione
Gli spostamenti sopra descritti mettono in luce le caratteristiche proprie dell’utilizzo di un approccio prettamente pedagogico - modalità che si va a differenziare fortemente da quelle attuate da altre figure professionali. Il consulente, dunque, non vuole essere l’esperto del “caso” portato in consulenza ma - attraverso uno sguardo aperto alle possibilità - vuole indicare dei nuovi modi di osservare una determinata situazione. Nel suo lavoro cercherà, quindi, di trasformare lo sguardo con cui si osserva, si pensa e agisce, richiamando tutte le dimensioni di latenza, impliciti e rappresentazioni sociali che sono proprie di ogni persona, poiché «attraverso un complesso lavoro di ascolto delle emozioni e degli stati d’animo dei partner dell’azione formativa, di decostruzione dei significati stereotipati e ormai cristallizzati attribuiti agli eventi, di contemporanea costruzione di nuovi nessi tra le cose, gli eventi, i concetti, gli stati d’animo, si può dar corso a un lavoro di elaborazione e di trasformazione del già noto, che può condurre a un’emancipazione» (Riva, 2010, p. 228). In questo senso è fondamentale sempre chiedersi: Quello che sta avvenendo nel qui ed ora cosa sta generando? Cosa sta producendo nella persona e nel contesto in cui ci muoviamo? Assumere questa prospettiva implica la presa di consapevolezza che aspetti che si ritengono come scontati e sono naturalizzati nella nostra esperienza e nelle pratiche formative - guidati dal cosiddetto “si è sempre fatto così” - rischiano di generare comportamenti che si possono ripercuotere negativamente sull’agito educativo. Scopo della consulenza pedagogica sarà allora quello di andare a ri-significare gli elementi dell’esperienza scolastica (come il setting, la materialità...), attivando un pensiero critico, auto-critico e riflessivo negli attori per arrivare a ri-pensare situazioni considerate e percepite come difficili e senza soluzione. La consulenza, dunque, si delinea come una sorta di «spazio terzo, intermedio, in cui gli attori sono coautori di un’unica esperienza trasformativa» (Mori, Varchetta, 2012, p. 123).
BIBLIOGRAFIA
Cappa F. (2016), Formazione come teatro, Raffaello Cortina Editore, Milano.
Contessa G. (1999), Psicologia di gruppo. Modelli e itinerari per la formazione, La Scuola, Brescia.
Dewey J., Cappa F., a cura di [1938] (2014), Esperienza e educazione, Cortina, Milano.
Formenti L., Caruso A., Gini D., a cura di (2008), Il diciottesimo cammello. Cornici sistemiche per il counselling, Raffaello Cortina Editore, Milano.
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Mori L., Varchetta G., a cura di (2012), Cura e formazione. Le organizzazioni che curano, FrancoAngeli, Milano.
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Regogliosi L., Scaratti G. (2009), Il consulente del lavoro socioeducativo. Formazione, supervisione, coordinamento. Carocci editore, Roma.
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Schein E. H. (2001), La consulenza di processo. Come costruire le relazioni d’aiuto e promuovere lo sviluppo organizzativo, Raffaello Cortina Editore, Milano.
Simeone D. (2011), La consulenza educativa. Dimensione pedagogica della relazione d’aiuto, Vita e Pensiero, Milano.
FILMOGRAFIA:
Pulp Fiction (1994), di Quentin Tarantino.