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La relazione educativa nella comunità per minori

L’incipit riassuntivo del workshop che con partecipazione e interesse da parte delle studentesse, ho avuto il piacere di condurre, può trovare il suo compimento in queste semplici parole: “Prima di tutto viene la relazione…” (1)

 

E aggiungo: non una relazione qualsiasi ma la relazione educativa investigata non ricorrendo solo ai dogmi e ai principi della letteratura o delle scienze dell’educazione in senso generale, ma una relazione educativa letta, studiata e confrontata a partire dalle storie di vita dei minori. L’esperienza quotidiana, infatti che mi vede nelle vesti di presidente di una cooperativa di servizi educativi (www.kairos.pc.it) e di responsabile di una comunità educativa residenziale per minori, mi ha offerto l’opportunità di sperimentarmi in questo interessante e stimolante lavoro accademico, offrendo l’opportunità al gruppo di riflettere sulla relazione a partire dalle storie di vita dei ragazzi e delle ragazze che abitano la K 2.

 

Lascio qui di seguito spazio alla vita e ai frammenti di vita che hanno guidato le nostre riflessioni, per poi concludere mettendo a fuoco i caratteri fondamentali della relazione educativa.

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Mattia…11 anni, arriva in comunità a seguito di un prolungato periodo di stress psicologico a causa della marcata conflittualità dei genitori. Fin da subito non fatica ad abituarsi ai ritmi e ai tempi della comunità; lega con gli ospiti più piccoli, più o meno suoi coetanei, instaurando con loro relazioni a volte di complicità, altre volte di sfida. Mattia frequenta la scuola mentre al pomeriggio è in comunità. Gli unici appuntamenti extra scolastici che ha sono: lunedì il laboratorio di giardinaggio e il venerdì catechismo. Con il passare del tempo, l’équipe educativa inizia a riportare un quadro comportamentale del minore piuttosto preoccupante: scenate isteriche di fronte all’invito dell’educatore a svolgere i compiti; piccoli furti e/o dispetti nei confronti degli altri e abbuffate incontrollate di cibo. L’intensificarsi di un tono relazionale sempre più di sfida e di provocazione nei confronti degli altri ospiti e degli educatori, porta l’équipe pedagogica a condividere questi atteggiamenti in gruppo durante il classico appuntamento settimanale. Il primo dato che emerge è che Mattia manifesta questi comportamenti solo quando è in comunità…fuori e quindi a scuola, a catechismo, durante uscite in gruppo, appare un ragazzino sempre molto adeguato, attento alla situazione e/o al contesto in cui si trova.

 

A causa di una manifesta incapacità di gestire e accudire la prole, Samuele 12 anni, Alberto, 11 anni e Matteo 8 anni vengono inseriti in comunità in accordo con i genitori e i SS. (è questo un caso di collocamento consensuale). Come spesso accede nei casi di incuria e di forte trascuratezza, per tutti i tre minori la famiglia riveste un ruolo di enorme importanza; quando parliamo di famiglia non dobbiamo limitarci a pensare a mamma e papà ma anche a tutta la famiglia più allargata con la quale i figli hanno un forte legame. L’ambientamento in comunità non è affatto semplice; se da un lato la scelta di non separare la triade di minori garantiva il fatto di averli nella stessa abitazione con le stesse figure di rifermento, dall’altro questo è fonte di scontri verbali litigi tra i fratelli. Uno dei primi compiti che i tre fratelli dovettero affrontare fu quello della frequenza a scuola da lungo tempo trascurata e dimenticata. Altra difficoltà: la presenza a tratti morbosa e irruente dei genitori in tutto quello che riguardava l’accudimento dei figli, aspetto questo che contrastava pesantemente con il percorso di comunità dei ragazzi. Tale caratteristica faceva si che i fine settimana i ragazzi li trascorrevano a casa. Accordo progettuale questo che ben presto si dovette interrompere perché fonte di forte disagio comportamentale e psichico nei ragazzi soprattutto in concomitanza dei rientri in comunità.

 

Semir arriva in comunità a seguito di una sua precedente fuga prima da casa, in seguito, da un’altra comunità per minori e da un suo desiderio di non ritorno in famiglia per una grave difficoltà relazionale sia con il padre che con la madre. Questi ultimi sono l’uno di origine tunisina e l’altra di origine albanese, separati e con famiglie ricostituite. Il clima familiare, dai racconti dello stesso minore, non appare niente affatto sereno: sembra che il padre sia legato ad atteggiamenti e comportamenti gravemente compromettenti il suo ruolo genitoriale mentre la madre abbia avuto grandi difficoltà nell’esercitare il suo ruolo a causa di una fragilità personale e conseguentemente genitoriale importante. Quel che si evince dal capillare lavoro documentale dell’assistente sociale di riferimento è che le frequentazioni, le situazioni e le scelte genitoriali siano state spesso pericolose e non adeguate alla età del minore e al suo percorso di vita, tanto da portare il minore stesso a decidere di vivere in condizioni di precarietà per proteggersi, presumibilmente, da alcune condizioni di vita e da sviluppare una forte dipendenza da sostanze (cannabis). Per tale ragione parallelamente al progetto di comunità Semir ha iniziato un percorso di supporto al SerT di Piacenza, con un programma di sostegno adeguato ai minori di cui siamo alle prime battute: percorso di conoscenza iniziale e indirizzo a una terapia psicologica costante e programmata che ci auguriamo possa divenire un punto di riferimento per lui; ad oggi ha effettuato due incontri specifici programmati. Semir ha mostrato da subito un atteggiamento molto adattivo nei confronti delle regole e dell’organizzazione della comunità, sostenendo di possedere una forte motivazione a un cambio radicale di atteggiamento, più per se stesso che per la sua famiglia, infatti, all’inizio riteneva di non voler rientrare nella casa di entrambi i genitori, dai quali non si sentiva né accolto né compreso. Successivamente, in un momento di maggior tranquillità emotiva e di conoscenza dell’équipe e del nuovo ambiente, si è sentito tanto sereno da manifestare l’idea di voler lavorare per ritessere la relazione materna, facendo anche richiesta al servizio e alla comunità di vedere la sorellina e la madre stessa! Semir nel suo periodo di permanenza in comunità non ha mai fatto menzione al padre, se non stimolato da domande dirette o degli educatori o dell’assistente sociale o della coordinatrice della struttura, dalle quali si è potuto evincere che la figura paterna è rappresentata in modo negativo, come un uomo onnipotente e di cui avere allo stesso tempo reverenza e vero e proprio timore, sentimenti provati dallo stesa minore e che cerca di trasmettere con chiunque dell’équipe ne parli. La coordinatrice della comunità ha costruito, nel corso di questo breve periodo, un buon legame di collaborazione educativa con la madre e la sua nuova famiglia che aiuta e sostiene il minore in questo delicato percorso di accompagnamento educativo. Semir è inserito al primo anno del percorso formativo per elettricista della scuola professionale regionale. Il minore è apparso fin da subito motivato e con buonissimi propositi legati all’impegno scolastico, pur avendo già effettuato alcune assenze nel periodo pre inserimento presso la comunità. Nonostante questa adesione, che appare spontanea e genuina, Semir ha accumulato più giorni di assenza ingiustificata e in una occasione è stato sospeso da scuola un giorno per non aver rispettato l’autorità e le indicazioni dell’insegnante. Semir si è mostrato da subito adeguato al contesto comunitario, rispetto a regole e partecipazione pur mostrando, prima in modo più tranquillo e successivamente in modo più deciso, una profonda intolleranza verso ogni sistema d’autorità. In particolare se questa tenta di opporsi o di fissare regole diverse da ciò che lui riconosce come giusto per sé. Semir mostra una sfiducia totale nel mondo adulto che legge solo come impositivo; è totalmente “barricato” dentro se stesso, soprattutto a livello emotivo, ogni volta che si cerca di andare oltre il semplice racconto degli avvenimenti, inizialmente prova a stare all’interno del riconoscimento e del racconto dell’emotività, ma appena ritiene d’aver superato ciò che probabilmente lui ritine il suo limite, cambia immediatamente argomento, anche quando succede qualcosa di bello. Trasversalmente quello che capita nel verbale si nota anche nel non verbale, in équipe i pochi abbracci che Semir si concede con gli adulti, ma anche con gli altri minori, appaiono sempre controllati, mai come un “lasciarsi andare completamente” alla fiducia nella relazione. Una difficoltà estremamente radicata e profonda nel minore che gli ha fatto sviluppare il forte desiderio di non far partecipare, anzi di tenere ben distante l’adulto da tutti gli aspetti della sua vita. Motivo per cui risulta molto lento e particolarmente difficile portare la relazione dell’équipe con Semir a un livello che possa superare il semplice adattamento relazionale ed educativo. Semir pensa costantemente di essere da sola nell’affrontare la sua vita e le sue difficoltà, si rifiuta ancora di avere un atteggiamento riflessivo nei confronti del suo passato, e tenta di condurre le sue decisioni in modo autonomo, tenendo l’adulto a distanza spesso con fare “seduttivi”, adattavi o al contrario durante la messa in discussioni di alcuni suoi atteggiamenti o comportamenti nel riproporre costantemente i suoi schemi mentali senza riconoscere e interloquire realmente con il pensiero dell’altro, quindi non modificando mai il proprio, anzi cercando di difendere sempre e comunque i propri interessi e tentando di mettere l’adulto in difficoltà verbale.

 

Yassin arriva in Italia, dopo un fatico e purtroppo consueto “viaggio d’immigrazione”. E’ accolto al nord, da un italiano che lo prende con sé e lo fa lavorare, senza contratto, presso la sua pizzeria, abituandolo quindi a un lavoro duro, senza orari (realtà già conosciuta in Egitto) e a poter disporre di grandi somme di denaro, senza preoccuparsi di accompagnare il minore nella sua gestione. A seguito di una segnalazione, il proprietario della pizzeria non può più tenere Yassin con sé e quest’ultimo decide di recarsi, tramite conoscenti, a Piacenza. Qui è accolto presso la comunità per minori stranieri non accompagnati, ma a seguito di alcuni pesanti screzi con altri egiziani ne viene allontanato con provvedimento disciplinare, giungendo così presso la nostra struttura. Yassin fin dall’inizio del suo percorso manifesta subito molte difficoltà; si presenta oppositivo alle regole e all’autorità esterna, situazione dovuta probabilmente al suo essersi arrangiato e governato per buona parte della sua vita in modo completamente indipendente dagli altri. Il minore è però molto disponibile a raccontare e condividere la sua storia: la madre muore poco dopo l’ultimo parto gemellare, il suo grandissimo e profondo attaccamento alla figura materna è fin dalle prime battute molto evidente, prosegue parlando dei suoi fratelli e sorelle e del suo papà; figura contrastante nei racconti del minore: a tratti tenuto in grande considerazione e rispettato e a tratti vissuto come un uomo capace di atteggiamenti molto duri e di grande pretese nei confronti del figlio soprattutto ora che si trova immigrato. Il minore è spesso aggressivo con gli altri ospiti, con gli educatori e con se stesso; infatti dopo forti crisi di rabbia e tensione, prevalentemente dovuti all’incapacità di accettare e introiettare le regole della comunità e del vivere comune, Yassin sente l’esigenza di ferirsi, perdendo completamente il controllo della situazione in una vera e propria crisi psicosomatica. La rabbia e appunto la difficoltà di gestione delle emozioni, che esplodono sia verbalmente sia fisicamente, sono i problemi principali di Yassin, uniti a una difficoltà di comprensione del senso e dei limiti del giocare insieme, del gestire le diverse relazioni nel modo più appropriato e nel rispettare i confini fisici dei vari rapporti che instaura con il prossimo. Naturalmente nel suo lungo percorso Yasmin attraversa varie fasi che oscillano fra momenti di collaborazione e momenti di grande opposizione; i legami di fiducia sono scarni e molto fragili, forte è il suo desiderio di libertà e di autonomia rispetto alla figura adulta. L’adattamento culturale è spesso fonte di stress, sia in relazione all’apprendimento linguistico sia in relazione all’apprendimento di usi e abitudini completamente differenti. Anche la scuola, con il suo impegno continuo e regolare sono spesso considerata superflue, dato il fortissimo desiderio di Yassin di trovare un lavoro che lo renda indipendente da tutti i punti di vista. Il forte legame e senso d’attaccamento sviluppato, progressivamente, nei confronti dell’équipe e soprattutto verso una figura esterna alla comunità, suo connazionale, che seppur giovane, dimostra di poterlo aiutare e di poter essere una importantissima figura di riferimento per lui, hanno consentito margini di lavoro educativo che sta conducendo il minore, solo ora, ad aprirsi a condividere il suo punto di vista e ad accettare, per lo meno a tentare di accettare, il punto di vista altrui.

 

Alla luce di tutte queste storie, quale relazione educativa possiamo tratteggiare? Prima di tutto è necessario mettere a fuoco che tutte e quattro gli intrecci chiamano in causa l’esigenza di un confronto/scontro con un mondo adulto competente, capace cioè di dare risposte chiare, precise, puntuali e concrete. E la comunità deve essere prima di tutto uno spazio in cui il minore che arriva trova questo contesto al fine di poter destrutturare le proprie difficoltà, fatiche, paure e ristrutturare i propri talenti, le proprie risorse, le proprie capacità. Il tempo della comunità è un tempo pensato per tessere relazioni nuove e consolidare quelle legate alla storie familiari, supportate e mediate però queste con l’aiuto di adulti che guidano e sostengono, pur concorrendo tutti ad unico obiettivo di benessere.

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Fatte queste premesse, ad individuare i caratteri della relazione educativa, ritengo possa venirci in aiuto la rilettura in chiave squisitamente pedagogica del concetto di dispositivo pedagogico di Riccardo Massa elaborata dalla pedagogista Alessandra Tibollo nel suo testo: La comunità per minori. Un modello pedagogico, edito nel 2015 da Franco Angeli.

 

A partire infatti da questa ricomposizione teorica, l’autrice nel suo scritto, individua alcuni principi pedagogici che ritiene essere fondanti a un vero e proprio modello metodologico di intervento per le comunità per minori. Quest’ultimo si sostanzia di tre principali dimensioni: la dimensione del soggetto, dell’organizzazione e del processo. Focus della dimensione del soggetto è proprio la relazione che deve essere:

  • personalizzata ovvero essa deve guidare affinché l’intervento educativo sia il più possibile corrispondente alle caratteristiche del minore. Ce lo ricorda la storia di Mattia: nell’elaborare un significato nuovo e differente del suo essere e sentirsi a casa, l’équipe pedagogica per far fronte alle difficoltà raccontate, ha dovuto organizzare al meglio e il più possibile, insieme naturalmente alla partecipazione di Mattia, il suo tempo fuori e dentro la comunità in modo tale che lo spazio della struttura fosse il più possibile scarico di cattivi ricordi e libero da vincoli e/o costrizioni. Il fine ultimo è infatti non tanto quello di fare o di far fare ma di stimolare il minore ad essere più consapevole di se stesso e delle sue capacità. Attraverso l’osservazione, l’ascolto la costruzione di un dialogo, il lavoro è quello di riferirsi ad una persona.

  • tesa all’ come l’intreccio di Samuele, Alberto e Matteo. Se in modo disequilibrato la famiglia si presenta tanto temuta e fonte di disagio, al tempo stesso essa rappresenta un elemento impossibile da escludere e/o da tralasciare nella costruzione di ciascuna delle singole relazioni con i minori in oggetto. Lo sforzo infatti dell’équipe educativa è stato quello di investire il più possibile, mediando, frenando, decostruendo e a volte ricominciando da capo, sulle risorse in essere nei singoli e nel nucleo familiare, con il solo obiettivo di accrescere le possibilità del singolo e del gruppo. Riconoscere il positivo corrisponde infatti ad evidenziare le risorse del soggetto che in modo naturale fanno aumentare l’autostima e di conseguenza li rendono capaci di un maggior controllo, consapevolezza e partecipazione.

  • volta all’accompagnamento inteso non come assistenza ma come un andare oltre creando dinamismo e movimento per il conseguimento dell’obiettivo finale. In questo la storia di Semir ne è un esempio. La diffidenza e sfiducia nella relazione con il mondo adulto, elemento caratterizzante della sua storia, ha fatto si che l’équipe educativa lo accompagnasse verso una nuova e graduale presa di coscienza che nonostante tutto è possibile ricominciare seppur mantenendo le incrinature e le cicatrici delle precedenti relazioni, rinnovandole e modificandole. Accompagnare nella relazione educativa di certo alimenta un possibile processo trasformativo che è vitale in un percorso di crescita; certo è una sfida perché questo atteggiamento chiama in causa un agire a volte incerto perché a entrambi gli attori della relazione viene riconosciuta la facoltà di agire; da ultimo non per importanza accompagnare consente il riconoscimento e l’accettazione dei propri e altrui limiti in uno scambio di crescita reciproco.

  • promotrice di responsabilità in entrambi i due attori della relazione, educatore ed educando. Il carattere di reciprocità della relazione sottolinea infatti come educatore ed educando non debbano mai essere soggetti passivi ma al contrario soggetti attivi. Quest’attivismo lo ritroviamo nell’ultimo intreccio di vita. La marcata irruenza di Yassin di certo non ha mai reso monotono le relazioni instaurate con gli educatori della comunità. Forse in questo caso specifico le differenti origini culturali dell’educando hanno rimarcato con forza questa forte esigenza che in più occasioni ha però dovuto fare i conti con la personalità fragile del ragazzo e con il suo profondo bisogno di affetto e comprensione.

 

Accanto della dimensione del soggetto, l’autrice individua poi la dimensione organizzativa, senza ombra di dubbio, più legata alla gestione della struttura e alla relazione tra le diverse professionalità che concorrono alla buona riuscita dei percorsi dei minori. Nello specifico essa comprende le seguenti dimensioni: collaborazione tra i colleghi, collaborazione tra i servizi, collaborazione tra e con le famiglie.

 

A completamento del modello è impensabile escludere la dimensione del processo che lega le categorie precedenti evidenziando in particolare i caratteri dell’intenzionalità, della progettualità e della valutazione.

 

Ecco che quindi, a conclusione di questo scritto, è doveroso riconoscere il pieno soddisfacimento dell’obiettivo posto all’inizio di questo lavoro. La reciprocità tra teoria e prassi si conferma essere una grande ed importante risorsa; non solo la rilettura e l’inquadratura del tutto innovativa offerta dal volume indicato, ha posto le basi, in aula, per un dialogo ricco e un proficuo e nelle rielaborazioni personali ha permesso un intenso scambio di esperienze e riflessioni riportate dalle stesse studentesse.

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1. L. Formenti, A. Caruso, D. Gini, Il diciottesimo cammello. Cornici sistemiche per il counselling. Raffaello Cortina Editore, Milano, 2008, p.3

a cura di

Paola Gemmi

pedagogista

 

Kairos servizi educativi s.coop.s.
Via Emilia Pavese
29121 Piacenza

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hanno contribuito

Francesca Farano,

Ileana Locatelli,

Elisa Pulcini,

Anna Piazza

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