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Dare Voce

Domande suscitate dal tema della Capability For Voice

in professionisti della cura

Introduzione

Questo articolo descrive alcune riflessioni fatte da un piccolo gruppo di lavoro in occasione di un workshop in cui ho presentato il tema della Capability For Voice. Con questo concetto, tratto da alcuni saggi pubblicati da sociologi nell’ultimo decennio, si indica la capacità di ogni attore di prendere la parola e di farsi ascoltare (1).

Le origini del concetto risalgono all’idea di Sen sulle Capabilities come dimensioni di possibilità in cui si gioca la libertà (o meno) che le persone hanno di scegliere in merito agli aspetti salienti della loro esistenza (2). In sostanza una Capability, secondo la lezione di Sen, rappresenta per una persona la capacità/libertà di realizzare una combinazione di functioning, “funzionamenti”, qui nel senso di “traguardi”, “acquisizioni”, “obiettivi”, cioè “cose” materiali o immateriali cui quella persona aspira perché dà loro valore. L’idea di Sen, nata nel contesto della teoria economica, si è ampiamente diffusa in virtù dell’efficacia con cui descrive un nodo fondamentale della condizione umana.

Il concetto delle Capabilities, introdotto da Sen per meglio interpretare le questioni della misurazione del benessere di un determinato agglomerato sociale, ha infatti l’effetto positivo di spostare subito il fuoco al livello della libertà e dell’iniziativa personale, poiché impone di considerare come il benessere non sia uguale per tutti. Le persone non attribuiscono uguale valore ai medesimi aspetti della vita, e ciò che secondo uno è fondamentale per stare bene, per un altro può essere irrilevante. Dunque è necessario sempre interrogarsi su quali valutazioni (e di chi) siano in campo quando un determinato sistema di welfare opera interventi, e quali direzioni di benessere si stiano percorrendo.

Ancorché i valori enunciati, per esempio in ambito lombardo, a sostegno del welfare assegnino una posizione centrale alla libertà di scelta del cittadino, i destinatari di cura/beneficiari degli interventi sono di norma le persone meno “libere” di scegliere rispetto ai programmi attivati per loro. Si tratta di tutte quelle persone che, a causa di varie condizioni di fragilità o svantaggio, riescono difficilmente ad avere un ruolo attivo né tanto meno incisivo quando si tratta di scegliere in merito alla propria esistenza; si pensi a solo titolo di esempio a persone con disabilità, con disagio mentale, con scarsi mezzi di sussistenza o in stato di grave emarginazione sociale.

La domanda cui porta l’applicazione del concetto della Capability For Voice a questo livello può essere posta quindi come segue: “I beneficiari dei servizi di cura hanno realmente la possibilità di dire la loro e di farsi ascoltare in merito alle scelte operate per loro da chi predispone i programmi?”.

 

1. Il workshop

Il workshop tenuto il 18 aprile presso l’Universita Statale di Milano Bicocca con sei studenti della Laurea Magistrale in Scienze pedagogiche si è concentrato su questa domanda e lo ha fatto a partire da alcune considerazioni tratte dal mio studio sul tema, condotto nell’ambito della disabilità e confluito nel lavoro di tesi in Sociologia Magistrale (3).

L’obiettivo del workshop era stimolare la riflessione sul tema, interrogando direttamente le differenti esperienze di studio e soprattutto lavoro dei partecipanti. La lezione ha previsto un’impostazione dialogica, con una prima parte “frontale” e un secondo momento di raccolta del sapere.

Il mio interesse era anche quello di mettere direttamente alla prova i concetti da me già esplorati nello studio di caso condotto in un servizio per persone con disabilità, per testare se e in che misura trovassero riscontro nei punti di vista degli studenti. Inoltre, intendevo raccogliere suggerimenti su altre possibili direzioni di ricerca. A tal fine, ho adottato un’impostazione didattica non rigida e costruita sull’enunciazione dei punti salienti, introdotta però da una preliminare raccolta delle esperienze/ presentazioni personali e dalla condivisione degli obiettivi e delle modalità del mio intervento.

Come filo sotto traccia, ho inteso anche suggerire agli studenti l’importanza del fattore organizzativo nei percorsi di sviluppo della capacità di prendere parola e farsi ascoltare da parte delle persone “oggetto” di cura.

La cornice concettuale in cui ho proposto di muoverci è quella del paradigma “sociale” della disabilità, cioè la considerazione in linea con la recente letteratura che la disabilità, lungi dall’essere più interpretata come mera questione medico-patologica, è sufficientemente fissata ormai come una dimensione fortemente legata ai contesti e alle limitazioni che essi possono presentare. È questa la linea di pensiero propugnata dal discorso sull’ICF, dal discorso sulla Qualità della Vita, dalla Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità.

La provocazione iniziale era formulata come segue: A livello di discorsi e pratiche di senso comune, è vero o no che c’è una certa abitudine a collocare la persona disabile in una posizione di “minorità”?

Si tratta chiaramente di una provocatoria e in ampia misura retorica inversione rispetto alla formulazione della domanda sulla Capability For Voice, ma è servita per introdurci rapidamente in un contesto ben definito: il contesto in cui la disabilità è una questione che investe il livello politico e istituzionale. Ho ritenuto che porre il tema in questi termini potesse favorire un approccio più immediato alla questione da parte degli studenti e suscitare in loro una risposta più competente e diretta, permettendo l’estrazione dalla loro esperienza di vissuti e episodi attinenti. Il concetto della Capability For Voice, a loro teoricamente sconosciuto almeno secondo questa definizione, è stato affrontato solo successivamente, a lezione inoltrata.

Le reazioni degli studenti alla provocazione e gli esempi da noi condivisi hanno centrato subito il tema e la discussione ha potuto prendere il via da un confronto interessante. Le sottolineature hanno toccato in questa prima fase le barriere architettoniche come esempio di un pensiero che disegna la città secondo criteri non ampiamente inclusivi, l’aspetto della partecipazione al voto negata a una persona disabile e l’aspetto della carrozzina come dispositivo che genera annullamento dell’identità  (“l’invisibilità” delle persone sulle sedie a rotelle e il loro essere spostate, a volte quasi automaticamente quasi fossero “oggetti”) e infine il discorso relativo all’abitudine degli educatori a sostituirsi agli utenti nel prendere parola durante le interazioni con gli altri, come esempio forse del perdurare di una considerazione della persona fragile come soggetto non all’altezza delle interazioni sociali.

Con l’esempio delle barriere architettoniche focalizziamo qui il potenziale limitante del contesto rispetto ai livelli di benessere che le persone con disabilità possono raggiungere. L’esempio del voto negato, quello dell’identità annullata in carrozzina e quello della sostituzione ci aiutano in aggiunta a sottolineare che anche le pratiche discorsive e i frame cognitivi di cui si sostanziano il nostro agire e il nostro pensiero hanno un elevato potenziale limitante sulle libertà delle persone con disabilità. In altre parole, perdurano forse in noi i portati di un sistema non troppo lontano in cui a gestire la fragilità e la diversità era un pensiero istituzionale totalizzante, fondato sull’esclusione concettuale prima ancora che fisica di alcune esistenze dal novero dei sani.

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2. La Capability For Voice

Si potrebbe essere portati a ritenere che quello che non avviene nella società “allargata”, cioè il pieno riconoscimento delle persone fragili come soggetti portatori di una propria visione valoriale e legittimati a parlare quanto gli altri, si realizzi almeno nelle strutture dedicate. Non è detto invece che programmi e servizi specializzati nell’assistenza e nella cura educativa di persone siano effettivamente attrezzati per valorizzare il punto di vista dei destinatari degli interventi. Sono in gioco fattori personali e fattori organizzativi, limiti intrinseci all’organizzazione del lavoro, prassi consolidate difficili da innovare, eredità di paradigmi di intervento passati e molto altro.

Tuttavia, la domanda su come sostenere e valorizzare la capacità di esprimere il proprio parere degli utenti prorompe, cruciale e attuale, e ciò è stato confermato anche dal fatto che l’argomento ha suscitato in tutti i partecipanti del workshop un movimento di interrogazione critica della propria esperienza lavorativa.

Gli studenti hanno mostrato di saper proiettare nei rispettivi ambiti di lavoro (disabilità, scuola, prima infanzia, società sportiva) il nodo costituito dalla differenza di potere insita nel rapporto di cura e delle ripercussioni negative che una scorretta gestione di questa asimmetria può avere. E in tutti gli ambiti pare interessante approfondire le possibilità di restituire agli utenti il ruolo di persone che possono/ devono essere interrogate rispetto a ciò che desiderano.

La Capability For Voice si rivela in questo senso un buon concetto-guida, in grado di orientare le riflessioni pedagogiche così come di fornire spunti per il cambiamento organizzativo. Infatti, un punto sufficientemente condiviso dal gruppo di lavoro riguarda il fatto che, da soli, gli operatori non possono garantire un adeguato spazio di parola alle persone. Un tratto distintivo delle Capabilities in genere è il fatto che si realizzano solo all’interno di un contesto, e in particolare se questo contesto è facilitante, se cioè si configura come valido interlocutore dell’individuo. Così è anche per la Capability For Voice, che può essere adeguatamente esercitata solo all’interno di una dimensione sociale che la sappia accogliere e valorizzi le istanze della persona singola. Non si può negare, infatti, che le strategie di intervento nei servizi di cura, benché spesso orientate al fuoco sull’individuo (si pensi per esempio al PEI come Progetto Educativo Individualizzato), sono costruite in pratica su un sapere che ragiona per categorie.

L’operatore dunque, di fronte alla domanda su come poter garantire un maggiore spazio per la voce delle persone che ha in cura, dovrà sempre fare i conti con la domanda sull’adeguatezza dell’organizzazione in cui si trova, sui limiti e le risorse che essa, e non il singolo, offre. Ciò è emerso non solo nel corso del workshop, dagli interventi degli studenti, ma anche dai contributi che mi hanno fatto pervenire a seguito dell’esperienza di studio condiviso. L’organizzazione, con il suo potenziale di apprendimento, è il luogo reale in cui si può manifestare la capacità di prendere la parola e farsi ascoltare dei destinatari degli interventi (4).

 

3. Le “Capacità umane fondamentali”

Martha Nussbaum, nella sua critica al contrattualismo, mette in luce come l’idea del contratto sociale, visto come quel momento fondativo in cui le persone pongono le basi condivise per la costruzione della società, non preveda spazio per la partecipazione attiva delle persone disabili (5).

Nel testo Le nuove frontiere della giustizia Nussbaum introduce quelle che definisce “capacità umane fondamentali”, cioè una lista di dimensioni senza le quali nella sua visione non è possibile sostenere che la vita umana sia degna. Nussbaum precisa inoltre che la lista dovrebbe valere per tutte le persone e che non va “ritoccata” quando si tratti di persone con disabilità; l’autrice sottolinea infine che non è possibile sopperire alla carenza di una capacità fornendo maggiori supporti allo sviluppo di un’altra. Tutte le dimensioni previste dalla lista devono essere rese vere a un livello minimo.

Tra le dieci “capacità fondamentali” durante il workshop ci siamo concentrati sulle Capacità 6, 7 e 10 (6). La 6 insiste sull’importanza di riflettere criticamente su come programmare la propria vita, la 7 enuncia l’importanza di “avere le basi sociali per il rispetto di sé e per non essere umiliati”, e la 10 in particolare insiste sull’importanza di poter controllare il proprio ambiente, partecipando alle scelte politiche che governano la propria vita.

Come si nota, le capacità umane fondamentali di Nussbaum hanno in sé un alto potenziale per il discorso sulla Capability For Voice, poiché vanno nella direzione dell’empowerment della persona, in particolare soprattutto di quella persona che rischia di non essere trattata come qualcuno “il cui valore eguaglia quello altrui”. La proposta di Nussbaum si volge al diritto, in quanto interroga primariamente il livello delle politiche, ma ritengo che possa funzionare altrettanto bene come stimolo per la riflessione del lavoro nelle équipe educative e assistenziali. Le domande poste dalla lista di capacità di Nussbaum, quando non eluse, obbligano a rivedere e mettere alla prova molti aspetti del lavoro con le persone che ci sono affidate in cura.

Se ci lasciamo interrogare, il fatto è che non possiamo non cominciare a vedere, come se utilizzassimo un liquido di contrasto, quali sono i limiti intrinseci alle prassi dei nostri lavori; limiti che contribuiscono ad ostacolare, piuttosto che facilitare, l’espressione del punto di vista dei beneficiari degli interventi. Il vissuto di essere costretti, come professionisti,  entro vincoli dettati da aspetti organizzativi emerge in tutti gli studenti del workshop, e soprattutto nei contributi da loro elaborati successivamente (7).

Ovviamente, se simili sono i limiti (e su di essi il peso più consistente è la necessità economica) differenti però devono necessariamente essere le ipotesi per mettere in campo delle opportune contromisure. Vanno trovate risposte situate, aderenti al contesto in cui sono sviluppate, realizzabili e non solo teorizzabili. Il lavoro da fare è molto e chiama in causa il passaggio dall’apprendimento del singolo a quello dell’organizzazione in quanto tale.

 

4. Voce, “Democrazia”, ascolto

Il discorso fin qui esposto evidenzia uno dei fattori più critici dell’educazione e dell’assistenza: la questione del potere, inteso come possibilità di realizzarsi autonomamente, benché accompagnati da qualcuno, e come opportunità di realizzarsi effettivamente secondo i propri desideri e non secondo quelli di chi è incaricato di “formare”.

Un valido esempio della criticità di questo aspetto sta nella scuola. Nel formare nuovi cittadini, come è possibile “coltivare la capacità da parte degli individui di partecipare come protagonisti alla vita sociale con una mentalità capace di dialogare con gli altri e di collaborare a fini comuni liberamente scelti” (8)?

Per formare le persone all’esercizio della libertà, la scuola e tutte le altre agenzie educative dovrebbero diluire e mettere in questione molti dei loro assunti, assunti che derivano da impostazioni istituzionali consolidate nel tempo ma che non paiono più valide oggigiorno. Il processo, se pure non fermo, è sicuramente difficoltoso, e ancora una volta chiama in causa la flessibilità delle organizzazioni e la loro capacità di rimodellare i propri schemi in favore di nuovi modi di operare, maggiormente funzionali a favorire l’emergere della voce di ognuno. La prospettiva di Sen slega l’idea di democrazia dalla presunta uguaglianza degli uomini. Gli uomini non sono tutti uguali e, per di più, il loro benessere non può essere interpretato da parametri esclusivamente economici. La prospettiva di Nussbaum approfondisce il discorso dei diritti umani “traducendoli” per così dire in una serie di dimensioni fondamentali e irrinunciabili, fondate tutte sulla libertà di vivere e agire, sulla capacità e possibilità di scegliere e dare voce alle proprie istanze.

Dare parola a qualcuno non significa, in conclusione, limitarsi a lasciare lo spazio perché questi possa esprimersi. Nella maggior parte dei casi, e ciò è vero soprattutto per le persone collocate in una posizione di “minorità”, significa aiutare, sostenere, suscitare attivamente questa espressione. A un primo livello, l’operatore deve mettere in campo tutta la propria capacità di ascolto e la propria sensibilità, nonché tentare di attivare tutto ciò che è in suo potere per facilitare l’espressione del punto di vista dell’altro. Già questo comporta un lavoro su di sé non indifferente, per modificare i propri assunti e le proprie abitudini a interpretare per l’altro. Al contempo, però, va provocato un processo di cambiamento organizzativo, per forzare gli schemi entro i quali è eccessivamente costretta la possibilità della valorizzazione personale e inaugurare delle vie nuove di apprendimento.

Per concludere, può essere utile portare la discussione al livello in cui la voce, a volte, per così dire “non c’è”. I soggetti con disabilità (i bambini, gli anziani in casa di cura, le persone svantaggiate e emarginate) hanno spesso delle vere e proprie difficoltà a parlare. Ciò può essere dovuto a condizioni di soggezione psicologica, così come a ritardo mentale, così come a vere e proprie disfunzioni (9). Queste condizioni di debolezza “costitutiva” rischiano di attivare nell’operatore un eccesso di sostituzione e/o di interpretazione.

Viceversa, la sfida è quella di comprendere che l’altro sempre e comunque trova dei modi per comunicarci la propria intenzionalità e i desideri che lo animano.

 

 

INDICAZIONI BIBLIOGRAFICHE ESSENZIALI

- Bifulco, Lavinia (2012), Che cos’è una organizzazione, Carocci, Roma.

- Bonvin, Jean-Michel; Thelen, Lionel (2003), Deliberative Democracy and Capabilities. The Impact and Significance of Capability for Voice, presented at the 3rd Conference on The Capability Approach, 7-9 settembre, Pavia.

- De Leonardis, Ota (2012), Hard Cases. In search of Capability for Voice in Job Insertion Policies, in AA. VV. Democracy and Capabilities for voice. Welfare, Work and Public Deliberation in Europe, Peter Lang S.A., Bruxelles.

- De Leonardis, Ota (2001), Le istituzioni. Come e perché parlarne. Carocci, Roma.

- Nussbaum, Martha (2007), Le nuove frontiere della giustizia. Disabilità, nazionalità, appartenenza di specie, Il Mulino, Bologna.

- Sen, Amartya (2000), Lo sviluppo è libertà. Perché non c’è crescita senza democrazia. Mondadori, Roma.

 

1. Cfr Bonvin, Jean-Michel; Thelen, Lionel (2003), Deliberative Democracy and Capabilities. The Impact and Significance of Capability for Voice, presented at the 3rd Conference on The Capability Approach, 7-9 settembre, Pavia. E De Leonardis, Ota (2012), Hard Cases. In search of Capability for Voice in Job Insertion Policies, in AA. VV. Democracy and Capabilities for voice. Welfare, Work and Public Deliberation in Europe, Peter Lang S.A., Bruxelles

2. Cfr Sen, Amartya (2000), Lo sviluppo è libertà. Perché non c’è crescita senza democrazia. Mondadori, Roma.

3. Il mio lavoro di tesi Lo spazio per la voce. Condizioni organizzative della Capability for voice nei servizi per la disabilità. Uno studio di caso è  stato discusso nel marzo 2015 con la professoressa Ota De Leonardis (Correlatrice Lavinia Bifulco).

4. Su questo aspetto si è concentrata la studentessa Martha Martinez, che ha approfondito la questione dell’apprendimento organizzativo a partire dalla trattazione che ne fa Lavinia Bifulco nel testo del 2012 Che cos’è una organizzazione, Carocci, Roma.

5. Cfr Nussbaum, Martha (2007), Le nuove frontiere della giustizia. Disabilità, nazionalità, appartenenza di specie, Il Mulino, Bologna.

6. Cfr Nussbaum 2007, p. 93 e ss. Le capacità in questione sono: Ragion pratica, Appartenenza, Controllo del proprio ambiente.

7. Questo è sottolineato per esempio nel contributo di Francesco Paolo Prestia, che evidenzia la propria difficoltà, come educatore a contatto con persone con grave disabilità, a modificare la programmazione del servizio nel senso delle richieste che gli provengono dagli utenti. Francesco sottolinea anche la carenza di spazio, in fase di elaborazione del Progetto Educativo, perché siano realmente coinvolti i destinatari.

8. Questa citazione proviene dal contributo di Lorenza Del Vento, che nel passaggio citato si riferisce alla lezione di Dewey. Lorenza si è interrogata sull’applicazione del concetto della Capability For Voice agli aspetti dell’educazione scolastica e al potenziale di democrazia insito nell’esperienza educativa.

9. In questo senso è molto interessante lo spunto di approfondimento di Martina Sambruna, che a partire da alcune suggestioni raccolte dal film “La famiglia Belier” ha deciso di esplorare la letteratura sul tema della sordità e propormi una bibliografia. Nel film infatti la protagonista è una ragazza che “dà voce” ai genitori e al fratello, sordomuti.

a cura di Stefano Sosio

 

Il Gabbiano -  Coop. Soc Cantù

 

Laureato in Scienze dell’Educazione triennale e Sociologia Magistrale,

lavoro come coordinatore in un servizio diurno per persone con disabilità.

All’interno del servizio, mi occupo anche di comunicazione, formazione, rapporti con le imprese

 

hanno contribuito

Lorenza Del Vento,

Martina Sambruna,

Martha Martinez,

Francesco Paolo Prestia

 

hanno partecipato

 Kiril Valentino Rossi,

Erica Cassano.

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