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Il gruppo ragazzi nelle comunità per minori:

una risorsa nei processi educativi nelle comunità per minori

L’assunto fondamentale da cui questa indagine, preliminare a un necessario lavoro d’approfondimento e ricerca per la sua assoluta novità in campo pedagogico, mira a valorizzare le “spontanee” dinamiche di gruppo all’interno delle comunità per minori come importante risorsa nei processi educativi. 

L’idea è che il gruppo, all’interno di un importante cornice pedagogica di riferimento, possa fungere da elemento curativo anche del singolo e non di ulteriore criticità e sofferenza nei processi educativi individuali realizzati in tale contesto.

Procediamo dall’inizio. Questo assunto muove i suoi primi passi all’interno di un modello di base specifico che vuole essere una concreta risposta alla domanda su quale sia la strada migliore da intraprendere per non correre il rischio che le comunità per minori proseguano il loro cammino verso una definitiva involuzione dell’accoglienza.

Nel corrente dibattito sul tema, in letteratura, incontriamo tre diverse posizioni parallele. La prima è rappresentata dall’idea della comunità per minori come servizio da “ultima spiaggia” in cui far confluire indistintamente ogni difficoltà minorile. Si noti che in questo caso la densità di problemi che le comunità si trovano ad affrontare rende impossibile l’avvio di un’adeguata progettualità pedagogica, mancando l’occasione di riflessione su quale intervento sia più adeguato per ogni singolo minore in carico ai servizi sociali ed essendo ridotta l’accoglienza residenziale tout court a una pratica istituzionale e istituzionalizzante.

La seconda posizione riguarda la considerazione delle comunità come uno dei possibili nodi di un’ampia rete di programmi e interventi di assistenza alle famiglie in difficoltà, riaffermando in qualche modo la necessità della loro esistenza ma in un’ottica di attivazione di percorsi di trasformazione e innovazione di tale strumento non ben definiti.

Terzo, vi è in atto su tutto il territorio italiano un cammino di differenziazione delle strutture residenziali, in un’ottica di specializzazione delle risposte ai diversi e complessi problemi che le strutture si sono trovate ad attraversare. In questo contesto però l’indicazione della specializzazione viene declinata solo in termini di specifici problemi o bisogni a cui la comunità per minori deve rispondere. Non vi è traccia invece di una ripercussione sul metodo dell’accoglienza, che rimane legato a percorsi già consolidati nella prassi operativa di comunità. Sembra che la specializzazione si sia ridotta a una mera specializzazione di target di accoglienze, senza portare con sé una modificazione metodologica e di sistema.

Quest’ultima posizione determina almeno due rischi evidenti: una catalogazione delle “patologie”, delle problematiche dei minori accolti – come avvenne nella declinazione medica dell’intervento educativo nei primi grandi istituti d’accoglienza – e una specializzazione che riguardi solo la relazione educatore-educando, o tutt’al più l’introduzione di un nuovo asse relazionale, educatore-educando-famiglia, come alcune comunità oggi prevedono.

Proprio la delicata questione della specializzazione rappresenta la vera sfida in tema di strutture residenziali; sfida che viene a essere la prima reale occasione per riflettere pedagogicamente sui modelli di comunità, poiché è pensabile e possibile un percorso di differenziazione solo nella misura in cui non si perdano di vista alcuni tratti ed elementi distintivi dell’intervento di comunità. 

È dunque proprio nella riflessione sul modello pedagogico delle comunità per minori che risiede la strada più feconda per la ricerca di una risposta esauriente alla domanda posta. Vi è la necessità di rifondare “il modello d’intervento di base” delle strutture di accoglienza per ridare coerenza al sistema formativo delle comunità e sostenere le loro differenziazioni interne (comunità residenziali, semiresidenziali, comunità familiari, comunità con utenza specifica).

Cosa significa, dunque, rifondare il modello pedagogico dell’intervento residenziale? Significa, prima di tutto, rileggere la vita di comunità come una realtà complessa e composita, come un vero dispositivo educativo, come lo definirebbe Riccardo Massa: l’insieme organizzato in modo pedagogicamente strategico di elementi come lo spazio, il tempo, il linguaggio, il corpo, il simbolo, che compongono ogni evento educativo. 

Questa particolare visione permette di riconsiderare lo strumento della comunità, nel panorama delle tipologie presenti, come ancora in grado di dimostrare la propria forza e la propria valenza educativa, superando le moltissime riflessioni riguardanti soprattutto alcuni aspetti della comunità mai o non del tutto sistematizzati: le prassi, i risvolti quotidiani, la relazione educativa e l’importanza di vari elementi relazionali, alcuni strumenti tipici, come il progetto educativo individualizzato, le cartelle, le équipe, la rete. 

Si propone quindi un modello pedagogico di base che sappia ordinare, sistematizzare tutti i preziosi elementi che fanno della comunità uno strumento di straordinaria importanza, capace di restituire qualità e specificità educativa alle accoglienze nella loro concretezza, in una prospettiva sistemica.

Questo modello pedagogico, da me denominato tridimensionale, può essere infatti declinato attraverso tre specifiche dimensioni: 

  • la dimensione del soggetto, fondato su principi che si riferiscono alla persona, allo sviluppo del minore, al suo accompagnamento verso un cammino di cambiamento e di crescita (personalizzazione, , responsabilizzazione);

  • la dimensione dell’organizzazione, con i principi che costituiscono l’ossatura, il modus operandi della struttura e di chi vi lavora, i quali “formano” lo spazio e il contesto entro cui il minore vive (collaborazione fra gli educatori, collaborazione tra i servizi, collaborazione con e tra le famiglie);

  • la dimensione del processo, i cui principi riguardano l’orientamento dell’azione degli educatori (intenzionalità e progettualità, forme del quotidiano, valutazione).

Se, dunque, definiamo la comunità come un dispositivo complesso a tre dimensioni, all’interno di esso convivono non solo singolarità differenti con ruoli, simmetrie e percorsi progettuali differenti, bensì due gruppi specifici interagenti fra loro. Questi gruppi creano tre livelli di indagine diversi: il gruppo ragazzi (con rappresentazioni proprie: come si vivono e come vivono nella comunità); il gruppo ragazzi in rapporto ai singoli educatori; il gruppo ragazzi in rapporto all’intero gruppo di educatori. 

Lo scopo ultimo di questo studio, però, si struttura forse intorno a un quarto livello di indagine ovvero il gruppo stesso degli educatori. Ciò che si desidera compiere è definire strumenti che consegnati all’educatore professionale possano dare valore positivo alle dinamiche del gruppo ragazzi in comunità ai fini di non accorgersi di esse solo quando queste si manifestano nella loro più forte negatività. 

È di fatto innegabile che il gruppo sviluppi le sue relazioni in modo “spontaneo” (cioè al di là della volontà dell’educatore), anche in un contesto così specifico e così ben pedagogicamente congegnato come quello delle comunità per minori, al contempo è ormai tangibile, dall’esperienza educativa concreta, che sia fondamentale attivare la riflessione degli educatori su queste dinamiche poiché leggere e pensare il gruppo può liberare l’équipe dall’idea di voler far coincidere la pedagogia con una qualche forma di “controllo sociale” che, sebbene mai del tutto espressa, certamente le deriva da un mandato istituzionale spesso troppo ambiguo, andando al di là di esso per avviare stimoli, suggestioni e veri e propri interventi, che sprigionino le forze positive del gruppo presente in comunità. Come già sottolineato non è presente una letteratura specifica su questo oggetto di studio proprio perché, come ben espresso dallo psicoterapeuta Michelangelo Grenci, uno fra pochi a mettere in evidenza il tema, in comunità ci si accorge del gruppo “quando scattano fra gli adolescenti alleanze strategiche e ben finalizzate, allo scopo di raggiungere obiettivi solitamente poco ben accetti dagli adulti, dagli educatori in comunità: fughe, trasgressioni varie, atti illeciti.”

Se non si vuole dunque che gli educatori rimangano spettatori silenziosi e impotenti difronte al compiersi dell’inevitabile e che questo finisca per schiacciare la forza e l’adeguatezza del loro intervento educativo, è indispensabile concedere al minore la possibilità di crescere e cambiare non solo attraverso la relazione con l’educatore, ma anche attraverso le relazioni che vive e coltiva ogni giorno con le altre persone che ruotano intorno a lui.

Definita l’importanza di ragionare intorno a un tema così poco indagato, si sviluppano di seguito alcune importanti suggestioni che potranno fungere da traccia per guidare un lavoro di ricerca ben più ampio e strutturato, come già espresso precedentemente. 

Il gruppo minori è costruito per necessità, in un contesto, tutto sommato forzato, ma comunque legato a esperienze di aggregazione, di incontro fra identità diverse da sé, di pensieri ed emozioni diverse dai propri.

È altresì importante precisare, con le parole dello stesso Grenci che pensare al gruppo di ragazzi su cui riflettere e progettare interventi, non significa escludere “la spontaneità dei modi di aggregazione, soprattutto in età evolutiva, [che] deve essere riconosciuta e valorizzata. Nell’ambito della prassi educativa ciò che vorrei introdurre non è un’alternativa escludente, nella logica dell’out out, al gruppo ludico, informale, spontaneo o casuale, affermando che un tipo di gruppo va bene e l’altro no. Si tratta piuttosto di una proposta, con l’obiettivo di polarizzare l’attenzione sui minori e sulle molteplici forme di aggregazione e sulla possibilità di pensare il gruppo ragazzi come risorsa che per alcuni aspetti può essere sostenuta, valorizzata, agevolata e «governata» dall’adulto educante.”

Nell’idea quindi di creare strumenti per poter leggere le dinamiche di gruppo all’intero della comunità in modo da “utilizzarle” in termini costruttivi per la crescita personale del singolo, vi è quella di creare, con le dovute accortezze, momenti strutturati ad hoc per poter valorizzare i momenti legati al gruppo stesso presenti in comunità. Nell’utilizzo del gruppo come metodologia educativa, potremmo dire, si dovrebbe prestare attenzione a molteplici variabili, proposte ancora da Grenci: 

  • la durata e la cadenza, il gruppo dovrebbe essere continuo con appuntamenti fissi, in modo da rendere prevedibile il suo svolgersi e legato ad un tempo che si ripete, sotto forma di rito comunitario, e un tempo d’ascolto svincolato dalla contingente necessità di ascolto;

  • il luogo, i ragazzi dovrebbero incontrarsi in un luogo da loro frequentato e familiare, facendolo diventare al contempo uno spazio “speciale”, allestito e preparato dagli stessi educatori con i ragazzi; l’orario, quest’aspetto è molto importante poiché dovrebbe essere garantita a tutti la possibilità di esserci, di essere presenti, al di là dei singoli impegni fuori dalla comunità;

  • l’incontro facoltativo o obbligatorio, la libertà di scelta è al tempo stesso uno strumento pedagogico significativo, ma questo non può esimere l’educatore da sviluppare uno proposta inclusiva, dove la presenza di ciascuno è pensata e considerata fondamentale per tutto il gruppo;

  • l’attività, naturalmente esse sono declinate a seconda dell’età e delle preferenze dei partecipanti;

  • le regole, come per le regole generali della comunità esse hanno una valenza simbolica e affettiva e l’educatore dovrà farsi garante del rispetto di quest’ultime, una volta stabilite con il gruppo, come anche della loro rimessa in discussione qualora se ne ravvisasse il bisogno.

Tenendo conto di tutte queste osservazioni, il gruppo può davvero possedere una funzione di cura nei confronti dei minori accolti in comunità, tanto da poter essere pensato come un’esperienza inseribile negli stessi progetti educativi individualizzati degli ospiti. 

Anche in considerazione del fatto che “è impressione diffusa tra gli operatori che le forme e i livelli di disturbo presentati dagli adolescenti ospiti di strutture educative stiano cambiando rispetto al passato. Si trova evidenza in ciò quando gli educatori raccontano di ragazzi sempre più isolati, incapaci di stabilire legami, indifferenti all’altro, con forme di comportamento più vicine alla depressione e al ritiro, a differenza dei cosiddetti «casi sociali», nei quali prevale la carenza di strumenti socioculturali e maggiormente inscrivibili all’ambito della devianza o della ribellione. (...) Esiste una certa concordanza, anche in letterature specialistica, sul fatto che almeno alcune patologie non siano riconducibili ad aspetti dello psichismo individuale, ma rappresentino piuttosto l’esito di sofferenze a livello familiare e gruppale (intendendo sia il gruppo primario di appartenenza, la famiglia appunto, come organizzazione relazionale che ingenera patologia, sia il gruppo interno come struttura introiettata che costituisce il nucleo dell’identità.)”

Dunque, il gruppo può essere utilizzato per discutere, confrontarsi, raccontare gli eventi della comunità e raccontare di sé, per affrontare tutto ciò che accade nelle vite dei ragazzi attraverso uno scambio reciproco che fa crescere nelle relazioni.

A tal proposito, può succedere che nel trattare la quotidianità essa possa divenire “una percezione temporale talvolta univoca, come un fluire ininterrotto di eventi e situazioni difficilmente segmentabili. È un tempo omogeneo, uniforme, di stampo conservativo, che annulla le differenze e minimizza il cambiamento. (...) Il gruppo può rappresentare di per sé un «marca tempo», nel quale riconoscere ed evidenziare i mutamenti, cesure, trasformazioni. Se sottolineato in gruppo, l’elemento di cambiamento riceve una legittimazione collettiva, un’evidenza pubblica che avvalora e accredita le differenze, gli scarti, le discontinuità”

Allo stesso tempo, però, se il clima di gruppo diviene di fiducia e di ascolto autentico, per l’educatore che lo conduce, come sostiene Michelangelo Grenci, esso diviene un vero e proprio “laboratorio relazionale che lo espone a vicissitudini e incombenze impegnative da gestire: il segreto, l’argomento scabroso (sesso e consumo di droghe nella graduatoria delle preferenza), la comunicazione spontanea affidata al gruppo, ma anche la delazione, la denuncia, la confessione o le illusioni.”

Se l’educatore è però disposto a gestire le complessità sopra esposte, questo spazio altro può essere utilizzato da tutta l’équipe per conoscere una chiave di lettura diversa del mondo del ragazzo, fornendo un modo per migliorare ulteriormente il progetto educativo del singolo minore. 

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1. M. Grenci, Il gruppo minori in comunità: una proposta metodologica tra animazione e cura, in “Animazione sociale”, 8/9 1 2006, pp. 82-91, pag. 83

2. Ibi, pag. 84

3. Ibi, pag. 86.

4. Ibidem

5. M. Grenci, op. cit.,  pag. 90.

a cura di Alessandra Tibollo

Pedagogista

 

Kairos servizi educativi s.coop.s.
Via Emilia Pavese
29121 Piacenza

hanno contribuito

Lorenzo Bertoni
Angela Pino
Debra Caravona
Greta Ragazzi
Michela Morandi
Marina Rainoldi

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